Gianfranco Mula racconta la sua vicenda a intervistatori del suo paese, che lo conoscono, sanno del suo impegno politico e sindacale, è stato consigliere comunale a Sedilo e dopo qualche anno lo è diventata la figlia Alice. Appassionato di cavalli, è stato il primo operaio a correre l’Ardia di San Costantino da capocorsa, mentre era segretario della sezione del Pci.
Intervista integrale: 131 min.
Andavo un po’ in campagna per aiutare mio padre ma non più di tanto, ho fatto anche il manovale quando abbiamo fatto la casa e poi è uscito il bando per fare l’industria.
La mia infanzia non è stata infelice, non la ricordo male. Allora c’era chi conosceva anche la fame. Io ho una foto per esempio alle elementari, ci siamo io e un vicino di casa con i pantaloni rattoppati, e un altro, figlio di un maresciallo dei carabinieri, addirittura con il cravattino a farfalla tutto ben messo, insomma eravamo gente di campagna. Un altro episodio che va raccontato, anche quello delle elementari: una volta, io non c’entravo niente, però io ero attratto da questi ragazzi più grandi di me, Tantena, Macario, Marieddu Muscone, che avevano sette otto anni più di me ed erano ancora alle elementari, e avevamo rubato le chiavi della scuola – era uscito anche sul giornale – e avevamo portato tutta la documentazione lì dove fanno adesso il consiglio comunale, lì c’era la quinta, e abbiamo portato tutto lì, gli abbiamo dato fuoco, è bruciato tutto. Prendiamo le chiavi di tutta la scuola, delle classi, del cancello, tutte e le abbiamo gettate in un ruscello a Su Padru.
Sicuramente andare in seminario, conoscere ragazzi diversi mi ha cambiato, certo. Anche se all’inizio non ero contento, però per poter studiare, tutt’e due volevano che andassi a fare le medie. Una volta lì, non eravamo in seminario, eravamo liberi nell’ aperta campagna quando finivano le ore di scuola. Il più massacrante era il mese di maggio, il mese mariano, tutto il giorno in chiesa in ginocchio. Mi ricordo un barnabita, padre Luigi Galimberti che poi era all’ospedale IDI di Roma dove c’era Pietrino Puddu, sono morti entrambi, Pietrino era il solo che aveva seguito tutta la carriera con i barnabiti, da laico, come medico, perchè loro erano proprietari di cliniche, anche l’ospedale di Bosa era loro.
Mi avrebbero dovuto vestire da prete il terzo anno e non mi piaceva ritornare lì vestito con le sottane, i miei genitori avrebbero anche voluto che io andassi ma io non ho… No, no, no. Era proprio un rifiuto. Bi dd’apo finzas nau a babbu, occhìmi ma no bi ando.
Io ricordo che quando venivo dal seminario d’estate, frequentavamo la chiesa, c’era Battistino, siamo coetanei, erano tutti vestiti da ragazzi, con la gonna lunga. A mimi no m’aggradiat e basta porca miseria, fut’una rigonza, po me fud’una rigonza, come un tempo venivano visti i gay. Non lo sopportavo, non lo so, era una cosa innata, un mio rifiuto. Probabilmente in me c’era anche poca voglia di studiare, uno che ne ha come mia cugina Battistina è andata a Sassari con tutti gli sforzi che hanno fatto, lei era orfana, il padre era morto, si è realizzata, per dire che chi voleva anche allora poteva andare a studiare, io avrei anche potuto farlo però no mi interessiat.
Il rifiuto è nato nel seminario, me lo ricordo comente chi siat como, ma ce l’ho ancora dentro custa istoria.
Nel paese si vedevano anche da bambino le divisioni. Anche se non era una tua scelta, però dai parenti, da questo e quest’altro eri costretto quasi a schierarti, non con il braccio armato ma con il pensiero, difendere più questo che quello, hai capito, tutte queste cose. E niente, mi ricordo da ragazzino cand’ana mortu a Culeddu, la strage di Lacunas, lui con la moglie e la cognata, e andavamo con un mio cugino a cavallo dell’asino a guardare il bestiame al confine con Aidomaggiore e ogni volta che passavamo lì lui mi diceva : «Vedi quella pietra? Cussu bucu, là incue, dae cue est chi an’ isparau», e zeo cando arribia aicuddeni punghio a totu pompa, che colia currinde, timinde. Mi ricordo quando c’erano questi episodi c’era un’invasione di baschi blu.
Ragazzino io non vivevo manco a casa, uscivo e me ne andavo a casa di zia Elena perché c’erano ragazzi in quel vicinato, e poi c’era l’officina di un fabbro, ero sempre lì, io visito a casa di mia zia da ragazzino, a dormire e a mangiare a casa ma il tempo libero ero lì.
Se non ci fosse stato il seminario e se non ci fosse stata Ottana la mia vita sarebbe stata… sarebbe andata in un altro modo non so quale. Forse è stata un’occasione, una manna, sicuramente un aiuto, non lo so, non posso dirlo. Come tutti i ragazzini ero attratto da queste cose un po’ forti.
Io torno a Sedilo per la terza media, qualche fesseria abbiamo continuato a fare, ero un po’ vivace. Eh, allora, sa balentìa, su balente…A me mi è rimasto sempre impresso, a diciott’anni quando si fa la leva allora si andava in caserma, la caserma era vicino a Sant’Antonio e passavano tutti in gruppo i ragazzi della leva, e passavano tutti assieme, pantallones a s’isporta, cambales, pariana zente… E io ero lì in quella via ed ero attratto da queste cose da piccolino. Siccome babbo e mamma erano padrino e madrina della sorella di Frearzu e di Merdone chi poi dd’aian mortu in una rapina alle ferrovie lì ad Abbasanta, io ero in seminario allora, mind’apo fattu prantu, ero come un figlio per lui, aveva la moto e mi portava dietro dappertutto, a Sarule, Orani, io ero un ragazzino, dieci anni, quindi non è che sono andato a rubare però vivevo in questo ambiente, era non dico un’università…
Alla fine avrei fatto l’allevatore, non lo so. Allora è capitato che abbiamo ristrutturato la casa e ho fatto per un anno il manovale con tziu Tineddu Cogotzi, mi voleva anche bene, e ho fatto un anno così poi è uscito questo bando e ho detto… Nel 1969 o 1970, in quegli anni.
Si sapeva, di Sedilo ne sono andate tantissime di persone, e tanti sono andati tipo Ninni Cocco, Carosello, Caleddu Atzas, erano già grandi poi però l’impatto tra la campagna e l’industria… si sun fuios, via. Sbagliando, secondo me. Io ho fatto la mia scelta, ho fatto il corso. Hanno preso tutti, quelli che hanno fatto la domanda, non riuscivano a coprire le richieste quindi hanno reso tutti, abbiamo fatto un anno di corso e alla fine c’era un esame. In questo frangente poi c’è stato uno sciopero – un’altra esperienza forte vissuta – a Nuoro, ma sai che non ricordo per che cosa, per l’industria, si erano occupate le scuole, questo durante il corso, sto parlando del 1969 o 1970.
Non mi ricordo nemmeno chi abbia fatto la domanda, immagino dal collocatore, e poi mi hanno chiamato a frequentare il corso. Li hanno presi tutti, molti erano più grandi di me, erano in campagna.
Quel periodo ha liberato un po’ di spazio infatti, ha allargato gli spazi per chi è rimasto in campagna, è servito sia per chi è andato in fabbrica che per chi è rimasto.
Prima di andare in seminario probabilmente mi piaceva anche andare in campagna, dopo ti sei un po’ disaffezionato, non l’hai vissuta con continuità, e quindi ti trovavi in mezzo, né carne né pesce, e per me Ottana è stato uno sbocco. Quarant’anni di lavoro, sono andato a diciott’anni e ne sono uscito a sessanta.
Nel corso il mio indirizzo era nel campo elettrico, avevano fatto la selezione loro, perché abbiamo fatto un periodo tutti assieme poi gli istruttori vedevano chi aveva più interesse per una cosa e chi per l’altra, la scelta l’avevano fatta loro. Finito il corso sono partito militare, per fortuna avevo finito il corso perché qualcuno non aveva finito il corso, lo aveva interrotto per fare il militare ma quando era rientrato non l’avevano più preso.
Finito il corso siamo partiti e siamo andati a Pisticci. Con me c’erano Battista Frau, Cosimino Carboni, al primo corso, poi Doddo al secondo corso. Comunque ci portano a Nuoro, con un pullmino a Cagliari, a Cagliari abbiamo preso l’aereo, un Fokker, la prima volta che prendevo l’aereo. Mind’ammento, terrorizzato! M’è rimasto il trauma, eravamo solo noi i corsisti solamente, una quarantina, e a un certo punto lo scalo era a Bari e a Napoli custu macu de pilota si è fatto un giro. Su Napoli, un giro panoramico, e a un certo punto annuncia: «Rimanete calmi, c’è in corso un’avaria del motore però state calmi perché speriamo di risolvere il problema. E cust’aereo perdinde quota prima in mare e pois.. e boghes, unu casinu, una cosa… A dda contare est unu contu, a ddu bivere un ateru. A unu certu puntu torrada a pigare e… Dae tando zeo m’agganzo gosi a su sedile. Capitava di andare a Roma a incontri sindacali, cando tzetzo in s’aereo mind’ammento sempere, le hostess di Ryanair mi conoscono, mi hanno visto altre volte, ogni volta avevo bisogno di dire Sant’Antinu azzuai a totus, e la tipa dice: «Il signore dell’altra volta c’è. Ascolti – mi diceva – lei guardi noi, se ci vede sorridere vuol dire che le cose vanno bene».
L’aveva fatto apposta per spaventarci, il pilota. Da lì allora io ho paura dell’aereo. Poi la cosa peggiore per me è il decollo, invece dicono che è più pericoloso l’atterraggio, bies s’ignorantzia ite cheret narrere.
Arrivati a Bari ci hanno portato in pullman a Pisticci, a Pisticci tutti euforici, eravamo quaranta, forse quarantacinque, e lì a Pisticci ci hanno portato in queste strutture di legno, le baracche. Cominciamo a frequentare la fabbrica, a conoscere gente, man mano che conoscevi la gente le persone si sistemavano, hai conosciuto un amico e gli dicevi: «Trovami casa a Pisticci», oppure a Bernalda oppure a Ferrandina, nei paesi lì vicino. Io sono rimasto a Pisticci. Arrivati a Pisticci a vivere, intanto conoscevamo le persone in fabbrica, qualche ragazza perché le ragazze dai ragazzi che lavoravano nell’industria erano attratte, e poi tutto sommato nel confronto con i pisticcesi, con i lucani secondo me eravamo cinquant’anni avanti, riuscivamo a gestire le cose…. A me, a Battista ci hanno trovato casa e abbiamo iniziato a vivere lì. Pisticci è un paese di ventimila abitanti, non si può dire una cittadina, un paesone, via. E da lì inizi a sentire, a parlare, prima di noi c’erano stati i siciliani che venivano da Gela per potersi formare – perché Pisticci era stata la prima – e poi tornare a Gela, e questi evidentemente, i siciliani, si erano comportati male, e avevano fatto una sommossa e li avevano buttati fuori dal paese, proprio una sommossa, con i forconi, cazzàos. Noi sapendo queste cose ci siamo messi a tavolino, c’eravamo io, Gianfranco Mussoni, Giuseppe Falchi di Cuglieri, Gianni Massaiu di Oliena, e Gianni suonava in un complessino, Giuseppe Falchi frequentava la sede del Pci, Mussoni, siccome il fratello era segretario dell’Azione cattolica e quindi lui organizzava queste riunioni dell’Azione cattolica, e io che giocavo a pallone col Pisticci in prima categoria. E quindi sai, una volta che abbiamo capito il paese, ma studiato a tavolini eh, allora ci hanno inserito. Anzi, eravamo i padroni, letteralmente padroni, perché boh, tutti si riferivano a noi, per tutte le cose. Volevano che si organizzassero dei balli, lo chiedevano a noi, però nello stesso temo attenzione: certo che eravamo coscienti di questa storia e ce ne facevamo forza però eravamo anche rispettosi delle persone, perché il paese se si ribella tu puoi essere tutto quello che vuoi ma se si ribella un paese ti butta via.
In fabbrica inizialmente ero affiancato con un gruppo di manutentori, seguivo loro, facevamo gli interventi sulle macchine, a chiamata. C’era una sede con il telefono e quando c’era un problema in uno dei settori, dei tre settori mi pare, ogni gruppo andava in quel settore, nel suo. Ti chiamavano c’era una macchina che non funzionava e la dovevi rimettere in sesto. Io esperienza prima, zero. Esperienza zero.
Ho imparato nel corso, imparato a leggere gli schemi, perché una cosa è fare l’elettricista industriale, uno è farlo.. Lì tutte le macchine hanno gli schemi dopodiché seguivi quella logica e arrivavi un po’ per esclusione. Mi piaceva anche perché mi sentivo nei confronti di molti altri un privilegiato. Intanto come manutentore elettrico lavoravi meno, era un lavoro pulito, il meccanico quello di produzione era sempre lì, tu invece arrivavi lì riparavi e poi te ne tornavi in quella stanzino aspettando che ti richiamassero. Io sinceramente come lavoro… avrei preferito fare il calciatore però era un bel lavoro, tutto sommato. Poi è sempre brutto sputare nel piatto dove hai mangiato, il piatto dove hai mangiato va difeso perché è quello che ti ha dato tutto, ti ha permesso di fare una famiglia, ti ha permesso di fare un sacco di cose.
Lavoravamo otto ore, interrotte dall’ora pasto, c’era la mensa. Il primo stipendio? Non buono, ottimo! Io ricordo, c’era un mio amico che lavorava già in ferrovia, lui prendeva la metà di me. Il contratto chimico allora era alto, poi giustamente hanno livellato tutto. Il mio primo stipendio è stato di centrotrentamila lire, nel 1970 fu’ dinari. Io mi ricordo con lo stipendio di un anno mi sono comprato la macchina, la A 112, bianca con il tettuccio nero… I soldi li ho conservati, ti spiego perché, mi che fu’ bessinde dae conca, me li sono risparmiati perché sapevo di dover fare il militare, e ho detto ci devo andare con soldi a fare il militare, perché se hai soldi la vivi in un modo sennò sei costretto a subire. Quindi io ricordo che sono andato a fare il militare e avevo risparmiato tre milioni e mezzo, mi ca fut dinari! Li ho spesi tutti allora. Il miliytare l’ho fatto a Grossetto, il CAR a Cassino e poi a Grossetto, a Poggio Ballone sopra Punta Ala, Castiglion della Pescaia, eravamo lì. Finito il militare appunto, sono tornato nel 1974 a lavorare a Ottana.
L’esperienza sindacale e politica l’ho vissuta all’interno della fabbrica. A Pisticci eravamo tutti di sinistra quelli che eravamo lì, qualcosa di innato anche per me, no dd’isco, però mi ricordo a Ferrandina quando veniva Colombo, petali di rosa, tu vedevi il corso… fud’ unu deus, però c’era Pastore che era del Pci ed è lui.. frequentavamo la sezione, non ancora molto ma l’idea era quella e da lì è nato. Poi frequentazioni in fabbrica e quell’esperienza nasce così, sembra che ti entri così senza nemmeno accorgerti, che non rifiuti, che accetti anzi, e poi c’era la difesa della classe operaia.
A Sedilo mai frequentato niente, non so cosa c’era nemmeno allora. La mia famiglia, siccome babbo è stato in guerra con Tatano Medde, votava liberale. Babbo era militare con Medde e li stavano portando in Africa e invece li hanno portati a Napoli e da Napoli li hanno dirottati in Spagna. Loro non lo sapevano, si che sunt tzapàos in Ispagna penzande chi fun’ in Africa e erano lì a difendere Franco, esperienza bellissima diceva babbo quella con Tatano Medde.
Un anno è venuta a Sedilo da una famiglia una spagnola, e siccome babbo parlava spagnolo e l’ha saputo, siamo andati lì e questa donna era la figlioletta di uno che gestiva il bar che frequentava mio padre, aveva tre anni allora, figurati la scoperta.
Poi babbo raccontava la storia di Guadalajara, che passavano gli aerei e loro sotto le bombe, a un certo punto sentono che da un megafono dicevano in sardo: «Fuiebòche, fuìe ca bos ant traitu» e babbo diceva: «E ainue fuimos da-e inoghe? Si fuimos da-e inoghe est a morrere». E chi era questo col microfono? Era Emilio Lussu.
L’amicizia con Tatano Medde lo portava a votare Partito Liberale, era di Norbello, si candidava spesso, diventò consigliere regionale.
Avevano sempre un buon rapporto, ma mica parlavamo di politica, assolutamente no, lui Tatano Medde veniva la settimana prima, portava i volantini e babbo se lo metteva in tasca e andava a votare, solo per amicizia. Coinvolto in una lista comunale babbo mai, un mio zio sì, Animaetza, ha fatto un mandato in maggioranza.
Insomma le idee c’erano, Pisticci me le ha rafforzate. Io mi ricordo una cosa, che mi ero incavolato con Gianfranco Mussoni per scelte sindacali, questo a Ottana, e gli avevo detto che avevano rotto, mi stavo disaffezionando e Mussoni mi aveva detto: «Gianfranco, quello che stai dicendo non corrisponde a verità, tu sei nato comunista e ci morrai». Ti giuro, m’at sinnau custa cosa puru, tu puoi fare mille sforzi ma lì torni, a quelle idee torni sempre, partito onon partito.
Allora c’era Berlinguer, era un simbolo, una persona apprezzata un po’ da tutti, anche dagli avversari, non era una persona qualunque. L’avessero seguito tutti il suo esempio, ma molti…
Leggere leggevamo i giornali, capitava anche qualche libro ma i giornali, allora c’era il manifesto, l’Unità, leggevamo questi giornali.
Poi da Pisticci ci avevano cambiato, a me mi avevano preso e portato a Vercelli. Lì è stata un’esperienza proprio da combattente, ora si può anche dire, ho vissuto anche… tra virgolette lì ho conosciuto persone che poi hanno fatto la scelta delle Brigate Rosse, l’ho vissuta quell’esperienza. Allora ero con Lotta Continua, avevamo fatto una grande battaglia, mi ricordo avevamo piazzato le tende in piazza Garibaldi al centro di Vercelli, quindici giorni, giorno e notte facevamo i turni, poi sai, le ragazze, e un po’ la politica un po’ le ragazze, tutto esaltante. E però m’era rimasta qualcosa di brutto perché poi l’imprenditore contro cui ce l’avevamo si era suicidato, me la sono sentita addosso questa storia, ti giuro da lì io due passi indietro li ho fatti, e da Lotta Continua sono uscito e altri sono andati in quell’altra direzione. Cose vissute, già si parlava di armi, si parlava di queste cose, io però questo suicidio dell’imprenditore mi ha traumatizzato. Non lo so che rapporto c’era con la fabbrica, non era una questione di fabbrica però questi di Lotta Continua spingevano, spingevano. Avevamo avuto un’altra esperienza, un giorno era venuto Almirante per fare un comizio e avevamo scatenato una sassaiola, ci avevano portato dentro per qualche ora, però è servito a schedarci, ma nemmeno a schedarci come caserma ma a farti schedare da quelli di destra, che ti hanno individuato, quindi eravamo in pericolo. Dopo questa esperienza un casino completo e quindi avevo chiesto di nuovo di rientrare a Pisticci, avrò passato lì sei o sette mesi. Io ero solo allora, comunque chiedo di tornare e allora era venuto il direttore e aveva chiesto perché e avevamo fatto una bella chiacchierata, gli avevo spiegato tutte le cose e mi aveva dato che si, «Se si trova in queste situazioni». Quello era proprio un bivio, si faghes s’ateru brincu est fatta. Ci avevano minacciato, erano armati di catene, ci volevano massacrare, l’azione che avevamo fatto contro Almirante era brutta lo stesso ma non ti mettevi il problema, però poi sono rimasto traumatizzato da quell’ imprenditore, io mi sono messo sempre il problema: ma siamo stati noi la causa? Sicuramente no, comunque da lì… sembrava una fuga vigliacca ma no fut, si poteva tornare indietro, ma se fai due tre passettini tornare indietro diventava difficile, impossibile. Poi ci sono stati altri fatti, un clima. C’era chi indottrinava… No, no, no. Io non ho mai partecipato, la sola cosa forte era Lotta Continua e questa manifestazione.
Quindi ritorno a Pisticci e lì faccio un altro annetto quasi, in tutto ho passato due anni a Pisticci. Facevo quello che facevo prima, lì conoscevo la gente, conoscevo le persone. Sicuramente mi ha cambiato all’interno l’esperienza di Vercelli, comunque a Pisticci non c’era quel clima.
A Pisticci uno dei leader era Giuseppe Falchi, che è una persona intelligente, lui viveva con noi, ha fatto la scelta dei sedilesi, lo chiamavamo Giorgio perché era noto come George Best, forse per i baffi, ed era nella sezione Pci, molto ascoltato, autorevole.
E poi arriviamo a Ottana. Intanto sono contento di tornare. Mentre facevo il militare c’era un mobiliere toscano che … un grosso mobiliere, siccome lui aveva un figlio malato ed era amico dei Mongili di Sedilo che sono in Toscana, mi voleva a tutti i costi: «Tu vieni, ti faccio lavorare bene e c’è da guadagnare», ma io: «Scusa Michele, sono figlio unico, io i soldi li apprezzo e mi piacciono ma non posso disconoscere i genitori… per un pugno di dollari, no». E no ddi fui andau. Ma sai quanto ha forzato? Ed era uno dei grossi, esportava in Dubai, aveva un giro. Ma avevo il lavoro, non l’avessi avuto… Sono tornato qua, a vivere ancora con i miei.
In fabbrica certo sempre manutentore, ho fatto due reparti diversi: inizialmente lavoravo all’acrilico, allora quando non era Eni, era Montedison, poi hanno fatto tutto Eni e da lì – quel reparto lo hanno un po’ ridimensionato – siccome conoscevo il direttore Passamonti che era compare di un mio compare, mi ero rivolto a lui e mi aveva spostato in centrale. Tutti gli altri sono andati in cassa integrazione, molti dell’acrilico, e io sono finito in centrale e lì ho fatto gli altri vent’anni.