Quando Elisa Mossoni accetta di parlare della sua storia, è morto da poco il marito, Andrea Mureddu, uno stimato quadro della fabbrica sin dalle origini. Una presenza che si avverte per tutto il tempo, un lutto ancora vivo che il tema di Ottana e della fabbrica – dove lui ha lavorato sino alla fine, mentre lei aveva lasciato per dedicarsi ai figli – rende ancore più pieno. Una figlia, Manuela, assiste, ascolta, annuisce, precisa date, quando la mamma la guarda per cercare conferma. Le interviste coinvolgono sempre emozioni, questa certo è particolare.
Intervista integrale: 82 min.
Lui Andrea ordinava tutte queste cose, trovava quello che serviva. Lui è sempre stato al personale, poi era quadro sempre lì. Questi articoli li vedevo anch’io quando lavoravo perché stando con il capo del personale dovevo fare proprio questo lavoro di archiviazione, di lettura dei giornali, trascrivere gli articoli importanti inerenti l’industria che poi venivano catalogati e conservati, giustamente. Poi di tutta questa storia per quanto riguarda i sindacati e queste cose di cui si è occupato Andrea lui ha proprio un archivio molto importante
Si sentivano spesso anche con Cillara e con Saverio.
Mi racconti prima lei, dove è nata, quando, i primi anni della sua vita, la formazione
Io sono nata qui a Sarule e ho vissuto sempre qui, ho fatto gli studi a Nuoro, ho iniziato con le magistrali poi avevo interrotto e avevo fatto un corso di segretaria di azienda di tre anni nel 1969 -‘ 70. Non pensavo a Ottana, poi finito il corso avevo lavorato un anno in farmacia a Nuoro nella farmacia di Falchi. Finito quest’anno… Nel frattempo lavoravo anche alla Cisl, facevo la mattina, durante il corso, lavoravo al sindacato e poi la sera andavo a scuola.
Mio babbo faceva il fabbro, siamo tre figli e viviamo tutti qui. Io sono del ’54. Due figlie e un maschio.
Mia sorella non ha studiato, mio fratello ha fatto la terza media e poi anche lui è finito a Ottana per un certo periodo, io dopo le medie ho fatto due anni di magistrale e poi il corso di segretaria di azienda.
Dopo di che ho fatto la domanda a Ottana, avevo finito a luglio di lavorare… ho fatto la domanda, a Ottana sono entrata a settembre del ’73.
Da Sarule se n’era già andata, il distacco dal paese era fatto
Sì, in qualche modo
Come se lo ricorda Sarule negli anni cinquanta e sessanta
Io ero piccola, però molto diverso da come è oggi, era tutta un’altra cosa il paese, diciamo che era anche più attivo rispetto a oggi, anche attività artigianali, anche parecchi studenti anche di un certo livello.
Non ha un ricordo di un paese cupo e triste
No, lo è più oggi, o almeno io lo vedo più oggi triste e cupo, ma non per la pandemia, in generale, ha perso parecchio, sarà perché ha perso gli intellettuali, che sono scomparsi perché sono andati via per trovare qualcosa di meglio giustamente, ma poi stanno scomparendo anche le persone di un certo tipo, piano piano sta rimanendo poco.
Gli anziani rimangono, gli studenti rientrano e stanno fuori perchè devono trovare qualcosa.
Mia figlia lavorava a Cagliari all’ospedale oncologico, radioterapia, adesso è rientrata a Sarule e ora lavora all’ospedale di Nuoro e lei è una che è rientrata, si sta facendo la casa qui vicino e quindi ha deciso di mettere nuovamente radici in questo posto.
Noi siamo stati sempre qui, io ho fatto questa casa, con tanti sogni, purtroppo non è proprio andato a buon fine.
Io ho iniziato a lavorare a 19 anni a Ottana. Ce n’erano altre, ci siamo ritrovate con quelle che hanno fatto il corso a Nuoro, alcune non hanno fatto domanda ma moltissime sì e poi ci siamo ritrovate in periodo diversi, io sono stata assunta nel ’73 subito a settembre, non ho perso tempo in quel senso.
Era la prima cosa che trovava…
L’ho fatta così la domanda, ho detto, vediamo un po’ questa industria che non conoscevamo niente no. È stato proprio una… io proprio non mi occupavo, non avevo letto quasi niente di quello che stava succedendo di tutto questo… Al sindacato ero segretaria, erano stati proprio loro a dirmi, guarda che ci sarà uno sviluppo qui a Ottana, devi fare la domanda e così è stato.
Ero alla Cisl, senza… avevano bisogno e sono andata, andavo la mattina due tre ore e basta, mi andava bene, poi in farmacia, partivo la mattina e rientravo la sera. Segretario del sindacato era Mario Mezzettieri, l’ho conosciuto molto bene, poi c’era Mario Bacciu, Antonello Stellino, siamo sempre rimasti amici, poi c’era Elio Coitza, Franco Ravarotto.
E a Ottana trova cosa?
Io allora quello che ricordo è che ero arrivata, ero andata negli uffici del personale, allora erano molto in fondo, non era nel palazzo di vetro dove poi ho lavorato, era in fondo. C’erano le strade sterrate. Ho fatto la visita a Cagliari, e poi il colloquio l’avevo fatto lì poi quando ero stata chiamata ero andata direttamente lì al palazzo di vetro dove poi ho lavorato sempre. Io ho lavorato finché non ho avuto la seconda figlia, una decina d’anni.
Arrivata a Ottana, ha trovato…
Una cosa allucinante veramente, con tutte queste persone, qualcuna la conoscevo ma la maggior parte erano tutte persone di fuori, quindi l’impatto… Però io mi son trovata subito bene, ho avuto subito un’accoglienza e proprio la voglia di lavorare, di vivere in un mondo bello, in un mondo completamente diverso e fuori da tutti gli schemi ai quali eravamo abituati.
Le emozioni sono state fortissime perché arrivare lì… Io ero una ragazzina, quindi mi son trovata con queste persone come dicevo, delle persone … come spiegarle, cioè un po’ di timore l’ho avuto perché non sapevo se potevo essere in grado di fare perché sapevo usare la macchina da scrivere, sapevo stenografare, avendo lavorato anche a Nuoro, essendo stata a contatto alla Cisl con un ambiente di lavoro consono a quello che avrei dovuto fare, non ero poi tanto… Ero tranquilla diciamo, però l’impatto hai un po’ di paura, persone di un certo livello un po’ ti mettevano soggezione, diciamo, all’inizio come primo impatto.
Io sono stata assunta e ho lavorato al personale sempre, da subito, dove facevamo relazioni col personale. Sono stata accolta dal capo del personale che era di un paese vicino a Lucca, era toscano, un uomo altissimo, molto bravo e buono e quindi mi ha messo a mio agio e lì sono stata affiancata a un ragioniere che faceva …ci occupavamo per il personale delle ferie, dei permessi, perché allora si faceva tutto manuale. Avevamo le cartelle di ogni dipendente ed eravamo in diversi gruppi e ciascuno di loro aveva un gruppo di lavoratori e quindi avevi proprio a che fare con le persone che lavoravano lì. Poi pian piano ci siamo conosciute con le altre persone che c’erano, tantissime altre ragazze, più o meno eravamo un centinaio di donne. Ho sempre lavorato lì fino a una certa data, poi sono andata a lavorare come segretaria del capo del personale che allora era dottor Brancatelli.
Erano spazi molti ampi al cui interno c’era la scrivania del capo-ufficio e poi quelle nostre, forse ce n’erano tre, ognuna aveva la sua scrivania con i suoi telefoni con i numeri interni e poi delle vetrate che separavano noi dall’ufficio contribuzioni. Noi avevamo i contatti con loro sempre per le cose riguardanti i lavoratori, anche lì capo-ufficio e gli altri addetti, però sempre separati solo da questi vetri per cui ci vedevamo in continuazione, il contatto era fisico e visivo,
Gli operai li vedeva…
Ho viaggiato in pullman e poi anche in macchina, facevamo dei gruppi.
I pullman erano…Tutti questi pullman, era una cosa impressionante. Quando arrivavi e quando poi la sera andavi via, al punto che erano talmente tanti questi pullman che tu dovevi cercare il tuo, era una cosa immensa, di pullman e di macchine, quelli che abitavano vicino la maggior parte viaggiavano in macchina. Una marea di pullman e di gente, questa è una cosa che proprio ricordo con tanta nostalgia, purtroppo. Perché poi piano piano questa cosa è venuta meno e l’ultimo periodo che Andrea era lì, che era solo, che andavo a trovarlo e fargli un po’ di compagnia perché non c’era nessuno, era una tristezza infinita. Era una tristezza infinita vedere tutte queste cose.. perché abbiamo vissuto i migliori anni della nostra vita lì, e quindi vedere tutto questo vuoto, tutto questo silenzio, ero sempre impressionata ogni volta che andavo, mi piangeva il cuore perché poi oltre che dentro lo vedevi anche esternamente che le cose non erano più curate, le strade ormai con le erbacce alte, cioè si vedeva che c’era una mancanza di tutta quella gente che ha vissuto lì per tanti anni.
Un po’ di consapevolezza … Naturalmente il gruppo crea solidarietà, o no, forse conflitti, e la trasformazione in attività sindacale e politica, se lei l’ha vissuta…
Io quello che ricordo – perché poi i conflitti e queste cose poi sono venuti quando io ero già andata via – però ho vissuto i momenti di aggregazione, di lotte che si facevano anche davanti ai cancelli, per le strade e poi all’interno della fabbrica quando si facevano le riunioni sindacali, che si facevano anche a ora tarda che finivano anche alle 3 e alle 4 del mattino… Naturalmente noi andavamo via molto tardi perché c’era magari bisogno di ciclostilare qualcosa, di scrivere delle lettere, gli accordi che si facevano con l’azienda e quindi qualche volta ci facevano fermare lì per fare queste cose, e poi tutto l’altro l’ho vissuto con Andrea che rientrava ad ore impensabili quando c’erano queste riunioni con i sindacalisti.
Quando c’è stato il problema della cassa integrazione giustamente io ero già la moglie di Andrea, che occupava una certa posizione – noi ci siamo sposati nell’80, ci siamo conosciuti lì, io ero all’ufficio personale e lui era all’ufficio relazioni sindacali, con dottor Quadru… Quindi era dietro di noi, ci vedevamo, e poi i contatti li avevamo fra di noi anche con tutto il reparto, eravamo sempre… Si andava a prendere il caffè insieme, si andava in mensa insieme, si creava un gruppo, infatti con tantissime di quelle donne che abbiamo lavorato a Ottana abbiamo tenuto un’amicizia che ancora oggi esiste, magari non ci vediamo più per mille cose, però è rimasto questo fatto…
Le dicevo per la cassa integrazione: quando doveva partire bisognava fare gli elenchi di chi doveva andare in cassa integrazione…poi le donne eravamo…e quindi lì abbiamo dovuto fare una scelta perché io non potevo stare…perché altrimenti avrebbero detto che ero una delle favorite perché lavoravo al personale, segretaria del capo del personale… E niente, abbiamo deciso che io sarei andata in cassa integrazione, non sapendo come andava a finire questa cassa integrazione.
Eravamo sposati con Andrea, da quando lui è arrivato ci siamo conosciuti, lui di Orani io di Sarule, e poi avevamo rapporti per quanto riguarda l’ufficio, problemi sindacali e anche per i permessi sindacali, quindi dovevamo per forza di cose interloquire, e quindi io ho deciso che sarei andata in cassa integrazione.
Anche se…innanzitutto avevo già un figlio, in attesa della seconda non mi potevo certo permettere di starmene fuori casa e lasciare i figli ad altre persone, perché noi partivamo la mattina alle 7.30 e rientravamo io dopo le 5 ma Andrea arrivava a casa alle 8, alle 9, la sera. Noi eravamo giornalieri, certo. Quindi si trattava di stare fuori casa tutto il giorno, quindi con l’idea della famiglia, bisognava fare una scelta, o il lavoro o la famiglia, e avevo deciso di stare a casa anche se il primo periodo ne ho risentito molto, mi mancava il contatto con le persone e il fatto anche di uscire di casa e di andare in un cotesto molto diverso dove si affrontavano problemi e dove vivevi quasi tutto il giorno con persone di altre culture. Questo è stato un arricchimento ed è sempre un arricchimento il fatto di vivere con altre persone e di avere rapporti.
Cioè tutte le persone anche di Ottana, ma quando la ritroveranno una cosa del genere? Migliaia di persone, c’era un viavai di macchine, di persone che andavano al bar, a qualche ristorante che c’era. Sono arrivati i giapponesi, io se fossi stata più giovane avrei imparato anche il giapponese stando con queste persone, persone di ogni genere, persone di cultura.
Erano proprio cose innovative ed è stato sempre un crescendo. Io mi ricordo quando veniva la Lanerossi a Ottana, questi che portavano i tessuti, portavano le coperte Lanerossi e venivano, facevano nella mensa queste esposizioni e le persone negli orari di intervallo, andavano che ne so come la fiera del bianco, andavano e facevano gli acquisti che poi avevi la possibilità che ti venivano trattenuti in busta paga. Erano bellissime, io ho conservato certe cose prese da loro, stiamo parlando degli anni ’70, cose che qui ce le sognavamo. Poi la mensa, la mensa era una cosa straordinaria, questo posto enorme gestito da questa persona che era molto intelligente sicuramente, Umberto Guiso, ma con tutte le persone che lavoravano lì dentro cioè facevano pasti per duemila duemilacinquecento persone, una marea di gente. Quando arrivavamo questi tavoli rotondi pieni zeppi di queste persone che magari non erano nemmeno abituate a mangiare un certo tipo di cose e in un certo contesto, insieme a una marea di gente, e anche questo è stato un accrescimento, una vita sociale che secondo me non vivremo più.
La produzione invece come la vedeva lei, come la ricorda, anche la scoperta delle cose che facevate bene o male la riguardavano ovviamente no?
Diciamo che, allora raramente potevamo andare nei reparti per questioni di sicurezza, per vedere queste cose, poi vedevamo di che cosa si trattava, di queste cose che.. Cioè cose impensabili che da una cosa così potesse nascere una fibra così importante, e poi ti rendi conto che queste cose poi sul mercato hanno un certo valore e dici, ma guarda un po’ questa è opera nostra anche no? Quindi un po’ di orgoglio anche in questo senso. Poi mi ricordo… una cosa che mi ricordo molto è anche il laboratorio, dove sì, andavamo qualche volta, perché non è che potevamo spostarci così a bighellonare avanti e indietro, però io le poche volte che sono andata mi ricordo questi capannoni enormi, quasi ti facevano un po’ paura. Questo frastuono, questi movimenti, questi macchinari e giustamente poi quando succedeva qualcosa logico che ti faceva pensare quanto bisogna stare attenti in questi… Ed essere… e usare le precauzioni e le protezioni che bisognava usare che molte volte purtroppo non venivano usate, degli incidenti che ci sono stati, anche quello. Però era come una grande città, all’interno, ci mancavano qualche negozio, perché potevamo andare a prendere il caffè quando volevamo, potevamo mangiare, se avevamo bisogno dell’infermeria potevamo andare perché funzionava perfettamente, avevamo la banca all’interno quindi anche questo spostamento per prelevare, quando venivamo pagati all’inizio facevamo la fila per andare a prendere i soldi. E poi le amicizie che si sono create all’interno dello stabilimento. Con certe persone un’amicizia che dura ancora oggi, un’amicizia intoccabile.
Era un deserto questa valle di Ottana, io mi ricordo che ero andata tanti anni prima, mi ricordo che quando volevano fare l’aeroporto lì che avevano fatto scendere un aereo, eravamo andati tutti quanti a vedere questa valle proprio nel rettilineo e mi ricordo questo aereo, eravamo tutti lì che guardavamo. Eeeeh, se fanno questo aeroporto qui siamo a posto, dicevamo. Certo, saremmo stati avvantaggiati anche in quel senso, però che questa città, questa cattedrale nel deserto come l’hanno chiamata, abbia fatto del bene non possiamo negarlo.