Episodio 9 – Natalina Masala

Natalina è stata una delle 350 donne impiegate a Ottana, tra 3500 uomini. La intervistiamo a casa sua, dove nessun oggetto sembra essere fuori posto. Il cortiletto interno è in fiore ma l’estate è già finita, pioviggina. Il suo ingresso nella dimensione lavorativa di fabbrica ce lo racconta come un’emancipazione, autonomia e libertà conquistate. Ma c’è anche la difficoltà a tenere assieme il lavoro domestico e quello fuori casa, il timore di non sentirsi all’altezza di quel nuovo ambiente professionale, le trasferte e le competenze acquisite, le nuove conoscenze tra cui ci sono le colleghe “sindacalizzate” che arrivano dal continente e che portano aria di novità. Il suo racconto ci mette davanti alle specificità dell’esperienza femminile di fabbrica.

 

UC: Quindi Natalina, noi adesso ti facciamo qualche domanda…però puoi dire anche cose che non ti chiediamo, quello che ti viene in mente di dire.

Mentre parlo qualcosa mi verrà in mente perché adesso… Avevo preparato anche una relazione per l’Auser, era la per la festa della donna, per la giornata della donna, e avevo fatto un intervento. Dovrei averlo ma non so che fine ha fatto. Nell’archivio dell’Auser c’è, scritto, perché io l’avevo scritto, a braccio non era molto facile per me, non sono abituata.

UC: Tu sei parte dell’Auser?

Ero, ero vicepresidente. Ho lasciato quando è stato male mio marito.

UC: Dunque, prima di tutto nome e cognome, quando sei nata e dove. E poi crica de contare la tua vita da ragazzina, le prime memorie, la famiglia della quale sei originaria, quanti figli eravate…

Quella è troppo lunga la storia! Dico che sono nata a Carbonia perché mio padre negli anni ’40 è andato a lavorare a Carbonia, per cui diversi figli siamo nati lì.

UC: In miniera?

Sì, all’esterno, però lavorava in miniera. Poi ha pensato di mettersi in proprio, c’era anche un incentivo per chi andava via, un tot per ogni figlio, più un premio, un incentivo. Quelli che sono rimasti li aveva assorbiti l’Enel. Quindi…nel ’56 siamo rientrati a Sedilo, io sono nata nel ‘50 e sono arrivata qui pronta per entrare a scuola.

UC: Quanti eravate?

I miei genitori hanno avuto sette figli però in sette non siamo mai stati, perché uno nasceva e l’altro moriva e quindi siamo stati in cinque.

UC: Quelli che ho conociuto io…

Sì. Francesco, Costantino, io, Angela, Giovanna.

UC: Dell’esperienza a Carbonia cosa ricordi?

Poco, poco perché non avevo neanche sei anni. Però ricordo questi palazzoni, noi abitavamo al quarto piano, con scala esterna. La differenza poi… essere arrivata qui e vedere casette ancora in terra, noi avevamo il bagno dentro, lì, era un altro mondo. Perché avevano fatto le case per i minatori, era tutto nuovo, Carbonia è nata cento anni fa, quanto? centodieci. Mio babbo si è sposato nel ’41 ed è andato lì con mia mamma, fino al ‘56.

UC: Come la raccontava lui, se capitava che lo facesse?

Non era molto loquace…anche perché avendo un’attività in proprio si aveva poco tempo di dialogare in famiglia. Sì, se ne parlava ogni tanto ma senza… Lui ha sempre detto che non è mai entrato nei pozzi, se non per visitarli, che aveva un lavoro all’esterno. Quindi non ne ha avuto nessuna conseguenza sulle malattie.

UC: Lui originario di dove?

Babbo era sedilese sedilese, solo che il nonno era di Bosa. Il nostro Masala è di Bosa.

UC: Sì, c’erano un certo numero di famiglie di origine della Planargia e andavano d’accordo fra di loro, legavano, per questa lontana origine. Tra questi anche i miei, di Modolo, poi Titina Marine. Quindi ricordi questo paese diverso da quello dove stavi che poi è diventato il tuo.

Sì è diventato il mio, mi ci sono abituata piano piano. Abbastanza difficile il cambiamento, anche perchè non conoscevo nessuno,  i bambini, entrando a scuola in una classe dove non conoscevo nessuno. Per fortuna che la maestra era signorina Ida ed era cognata di mio zio. Mi aveva detto : noi siamo parenti… Quindi questo mi aveva un po’…la strada me l’aveva semplificata.

UC: Fai tutte le elementari in paese…

Sì, normale. Aiutavo in casa, i genitori, nella loro attività, quando era possibile. Dopo le elementari ho fatto l’avviamento, poi a un certo punto ho avuto l’idea di farmi un corso di segretaria d’azienda, e andavo ad Oristano.

UC: Di tua iniziativa?

Di mia iniziativa. E così poi è arrivata Ottana e mi ha trovato con una qualifica di dattilografa e segretaria d’azienda, e un po’ perché era morto mio fratello già dipendente Enichem, anzi Chimica e fibra del Tirso, un po’ quello che ci aveva fatto venire in mente, però io già ce l’avevo in mente di fare la domanda. Poi il fatto che lui sia mancato, e conoscendo i dirigenti – perché son venuti a casa tutti – allora ho chiesto se era possibile. E come no?! Faccia la domanda.

UC: In che anno era morto tuo fratello?

Lui è morto nel ’72, io son stata assunta nel ’73, era ancora un cantiere. L’abbiamo vissuta come una cosa bellissima, ricordo che ragazzine di paesi non migliori dei nostri – perché comunque tutto il centro Sardegna era ancora senza acqua dentro, senza fogne, a Ottana lavavano ancora nella piazza – da una parte c’era l’industria, dall’altra… c’era proprio un contrasto, un contrasto così evidente da non lasciarti indifferente.

UC: Tu arrivi lì e cosa trovi?

Io arrivo lì, mi sento inadeguata, naturalmente, al primo impatto, perché io ho fatto questo colloquio dove tutto è andato benissimo, duecentodieci battute al minuto, complimenti eccetera, però poi trovarti in un ufficio a lavorare, che non sai da che  parte cominciare, perché penso che chiunque,  pensandoci adesso (ride) il primo giorno di lavoro non sa fare niente, deve imparare, anche se… E poi piano piano… Mi sono inserita abbastanza bene. Abbastanza bene.

UC: Quante persone hai trovato in quella fase?

Era una fase di assunzioni quindi, guarda dopo di me hanno assunto le analiste che lavoravano nel laboratorio, che sono tutte quelle ragazze che hanno fatto quella scuola di Ghilarza, e cioè di Borore, di Abbasanta, di Ghilarza, qualcuna di Aidomaggiore e solo quelle però, poi dopo il ’74 assunzioni non ne hanno più fatto.

UC: Entri in questo mondo e tutto attorno cosa succedeva?

Io a fine ’73 sono stata assunta e a marzo aprile del ’74 è stata avviata la produzione. Subito con problemi, subito con minacce di chiusura. Premetto che dopo anni che sono stata in quel reparto, una decina, e aver fatto la segretaria di reparto e avendo visto tutto il funzionamento di tutti i vari reparti dalla segreteria del capo, ufficio acquisti, ricevimento materiali, contabilità di magazzino, gestione scorte eccetera, io -terza media, con la specializzazione di segretaria di azienda – sarei stata capace di gestirlo. Veramente. Cioè non ci voleva un ingegnere, non era necessario, a fare cosa, a gestire un magazzino? Poi c’erano gli altri che giravano intorno, c’erano gli altri reparti, che ti chiedevano un determinato materiale con tanto di codice, quindi tu l’importante è che gli davi quello che ti chiedeva, non era importante che tu avessi conoscenze tecniche, perché il materiale che ordinavi ti veniva richiesto dai reparti, però non lo so se v’interessa…

UC: Come no, certo!

VS: Cosa facevi tu di preciso?

Io ero segretaria nel reparto materiali, quindi c’erano magazzini enormi, dove entravano i camion a scaricare, sin dentro i magazzini. Gli operai andavano a occhi chiusi a prendere un pezzo perché c’era il codice di ubicazione, era tutto ben programmato, e alla fine dicevo: ma tutti questi soldi che si prende questa gente per… per fare cosa? Certo ci saranno stati… Dopo sono stata segretaria del capo della manutenzione, l’ingegner Francesco Frau di Orosei, lui sì che aveva bisogno di una certa specializzazione, era ingegnere nucleare, il più giovane ingegnere nucleare d’Italia, il primo che si è laureato in ingegneria nucleare, e lui sì che aveva bisogno di conoscenze tecniche e ce le aveva. E anche umane, devo dire, una delle persone che mi ha lasciato un ricordo bello, un ricordo umano molto bello.

FA: Segretarie eravate tutte donne?

Segretaria di reparto ero solo io, dopo tre mesi che ho lavorato al ricevimento materiali e che stavo per licenziarmi perché non mi sentivo idonea mi chiama il capo. Fine, penso. Finito il tempo di prova, licenziata. Vado, tremando, tremando, e lui: ho visto il suo impegno nell’eseguire il lavoro, la sua serietà eccetera, a me hanno confermato il diritto ad avere una segretaria e io ho scelto lei (sospira). E comente fatzo como?! Dovevo inventarmi un ufficio, mio, me lo dovevo creare con tutto quello che comportava, essendoci solo tre mesi mi sembrava una cosa… e oggi ci rido sopra. Lì bastava mettere i raccoglitori e conservare una copia di tutti i documenti che passavano nelle mie mani e archiviarli. Invece quando son tornata in ufficio, perché mi aveva detto un collega, maschio: ti vuole il capo. Adesso, mi ha detto di mandarti da lui. E questo ridacchiava sotto i baffi e io allora avevo detto tra me: finita la carriera (ride). Quando mi ha detto così – quello lo sapeva cosa voleva – beh, non pensiate che sia presuntuosa, quello ha detto: za no zughed s’ogu puntu! (ride). Invece le colleghe femmine hanno detto: ma si vedeva che Natalina era accozzata (ride).

UC: Quante donne eravate in quella fase?

Io penso che fra impiegate, operaie nel senso che operaie poi non ce n’erano – a parte le analiste che erano considerate operaie specializzate – però non più di cento, su tremila e cinquecento uomini, quindi, cento donne, un centinaio. Penso.

UC: Tu viaggiavi allora?

Io viaggiavo, andavo in macchina o in pullman, o macchina anzena, o macchina mia, poi con mio marito.

FA: Avevi già i figli?

Allora avevo Sara, perché poi la gravidanza di Alberto l’ho fatta a casa, una gravidanza difficile. Anche quella di Sara, la terza no perché ero a casa, forse perché non viaggiavo.

UC: In che anni siamo?

Nel 1981 è nata Sara, nel 1984 Alberto. Io sono andata in cassa integrazione nel 1985, sono andata in cassa integrazione nel 1985, non perché mi avessero… non mi potevano mettere, perché ero tutelata dal bambino piccolo, la donna non poteva essere…eravamo tutelate da quel lato, sinché il bambino non avesse compiuto un anno, e anche quando eravamo incinte, non potevano né trasferirci né metterci in cassa integrazione, niente, né licenziare, niente. Però io non stavo bene, allora avevo chiamato il capo del personale, che era Andrea Mureddu di Sarule, e gli ho detto: Andre’, se dovete mettere qualcuno in cassa integrazione scegli me perché non sto bene. E ha detto: Mettimelo per iscritto.  Io per iscritto non metto niente, se mi vuoi mettere bene sennò dammi quindici giorni che mi cerco una ragazza e rientro al lavoro. Mi richiama e mi ha detto:  Considerati in cassa integrazione (ride).

Io comunque un po’ mi dispiaceva e quindi ho lasciato il cordone ombelicale attaccato. Perché avevo il conto nella banca dello stabilimento, i bambini li mandavo nelle colonie dell’Eni, ma…pensando che la cassa integrazione sarebbe durata tre anni, mi sarei cresciuta i bambini e poi sarei tornata al lavoro.  Invece di tre anni in tre anni…  I colleghi che mi dicevano: Nooo, noi ti stavamo aspettando, abbiamo detto “Natalina non l’hanno messa in cassa integrazione quindi non la mettono, adesso tornerà dopo tre mesi”. Invece io ho preso anche un anno di aspettativa, ti spettava, sino all’anno del bambino, tre mesi in tutto, però poi andando a scalare lo stipendio fino al compimento del primo anno. E potevi stare a casa. Però poi non me la sentivo lo stesso, erano in due, i bambini, e vabbè, visto che c’è questa possibilità di fare tre anni di cassa integrazione me li faccio, poi torno. E poi non sono più tornata. Non mi hanno più chiamato, solo alla fine quando mi facevano le proposte: Tu te ne vai, noi ti diamo l’incentivo. E io ho detto: No, mi dispiace, io voglio il posto di lavoro, no voglio l’incentivo. I bambini erano diventati grandi e io non avevo un lavoro e allora avrei potuto lavorare, perché quando i ragazzi cominciano ad essere chi alle superiori, chi alle medie, comunque non mi sentivo più così indispensabile. E loro mi avevano anche trovato, alla Cartonsarda, da fare un colloquio: Aprirà a marzo. Mi chiamano alla Cartonsarda, mi hanno chiesto che esperienze avevo, io ho detto quelle che avevo però ho detto: Guardi, a me non mi metta un computer in mano, io non lo so usare, ho usato le macchine meccanografiche in contabilità di magazzino, ho fatto tre anni lì. E  loro hanno detto: Ah, se ha usato le macchine meccanografiche usare il computer sarà un gioco! E sono tornata a casa, ho detto a mio marito: Vedrai che mi danno un lavoro. Dove? Alla Cartonsarda. Ah, la Cartonsarda. Lui le girava tutte, perché facendo il manutentore, sapeva, conosceva… Ma se non c’è niente, come fanno a chiamarti subito? Ma non a marzo, ma non a questo, ma neanche fra dieci anni! E infatti la Cartonsarda credo che abbia chiuso senza aprire. E lì ci siamo ritrovati tutti quelli ai quali hanno risposto picche come a me, ad andar via. Ma siamo tornati indietro di trent’anni, cantiere… Cioè è stata un’emozione bellissima quando sono andata alla Cartonsarda a fare il colloquio.

UC: Questo pià avanti però…

Questo quando è? I ragazzi erano già grandi. Ah, poi ho fatto un’esperienza di trasferta a Terni, nel ’79.

UC: Come mai?

A Terni, a Nera Montoro dove facevano l’alcantara e avevano bisogno di una che sapesse usare le macchine meccanografiche. L’azienda era italo-giapponese. E lì ho fatto questa esperienza di tre mesi, loro volevano di più ma io ho detto: Guardi, io provo per tre mesi e poi vediamo. Ok signorina, sì sì. Allora in tutta Italia c’erano già i computer, le macchine meccanografiche non le sapevano usare, da noi eravamo in quattro alle macchine meccanografiche, tutte sposate con figli, io ero l’unica signorina, quindi ero l’unica che sarei potuta andare. Allora ho detto:  vado non vado. Mio marito tra l’altro – eravamo fidanzati – era già lì nel senso che era in zona, e diceva: Ma non vorrai mica rinunciare a un’offerta simile?! Lui era in Toscana, in Umbria, era in trasferta dalla Germania, perché lui era sempre in trasferta, Svezia, Olanda, Italia e in quel momento era in trasferta in Toscana e lui mi ha detto: Ma accetta, accetta, quando mai non accetti?! Non devo saltare il mare per vederti.

Arrivo lì, all’aeroporto mi ha portato un taxi, con tutte queste luci che io non avevo mai visto. Il lusso, sola, il lusso di questo taxi! Poi arrivata lì, l’azienda era piccola…

UC: Era la prima volta che uscivi?

No, però non ero mai andata in taxi, un taxi tutto per me. Io ho chiesto il permesso di potermi sedere davanti, sai le persone si siedono dietro ma io avevo bisogno di stare davanti perché soffrivo il mal d’auto.

FA: Eri già stata fuori dalla Sardegna?

Sì. Ero stata a Firenze diverse volte, almeno due volte, una volta quindici giorni una volta dieci, a Firenze c’erano persone di Sedilo che mi ospitavano.

Quindi trasfertista a Terni…

Una storia! Scioperi! Che io non sapevo, l’ho saputo dai sindacalisti, la gente mi guardava, non capivo perché, entravo a prendere le sigarette e c’era uno scemotto che mi ha detto: È lei la sindacata? Appo nau: it’ad’ cherre’ custu? No d’isco. Poi i sindacalisti di reparto mi avevano detto: Guarda che non ce l’abbiamo con te, ce l’abbiamo con l’azienda che non assume. Poi vedo i titoloni nel giornale locale: Arrivano i sardi (ride) trasfertisti, e qui non si assume. Vuol dire che c’è bisogno di persone , e quindi c’era tutta questa… c’era paura che io me ne andassi da parte dei capi e insomma… Però è stata una bella esperienza perché sono stata accolta dalle colleghe, dai colleghi, in modo… Poi un’esperienza, sai, in un hotel, sola, che andavi a pranzo in mensa però a cena nell’hotel, e vicino all’hotel c’erano anche i ristorantini che ci sono in Umbria dove si mangiava bene. Io prendevo il treno ma c’erano tantissimi ragazzi che si sono offerti di darmi un passaggio per andare a lavorare, ma io sono andata sempre in treno…(ride)

FA: E l’esperienza dello sciopero ce la racconti?

Lo sciopero era… Io non me ne rendevo conto, ho visto questo movimento, poi gli altri son venuti a dirmi che non c’avevano niente con me e che era una questione che avevano con l’azienda, io ero una pedina, mica ero… Me l’hanno proposto, mi sono anche fatta consigliare da qualcuno più esperto di me su cosa dovevo chiedere.  Economicamente andava benissimo perché prendevo lo stipendio qua, più il venti per cento e non lo vedevo, cioè nel senso che me lo depositavano nel conto e lì io non spendevo nulla, avevo tutto pagato, quindi era un’ottima… Per una ragazza di quegli anni, dove ancora si rimaneva dietro il telaio o… Insomma, era una cosa…

UC: Una emancipazione…

Sì. Che neanche io l’avrei immaginato, neanche io che lo stavo vivendo. Me ne avevano anche proposto un’altra di trasferta qualche tempo prima e l’avevo rifiutata, sempre per le macchine meccanografiche.

UC: Il cambiamento era già avvenuto a Ottana?

Sì il cambiamento era già avvenuto a Ottana, però il fatto di uscire per lavoro così, di essere stata anche protagonista di una… Tutto mi sembrava, tutto “era” un’esperienza poi alla fine, non è che mi sembrava, tutto era esperienza.

UC: Complessivamente questi anni in fabbrica te li sei vissuti abbastanza bene, con piacere, che espressione useresti?

Sì, sì. Io devo dire in genere le persone, quelle che ho avvicinato, colleghi eccetera, ancora mi mandano i saluti se vedono una persona di Sedilo.

UC: Invece le tensioni ,che sono cominciate abbastanza presto se non nel tuo reparto fuori, e il conflitto, come li racconteresti?

Io devo dire che ho visto sempre gente forte che lottava per non far chiudere la fabbrica, tipo quella notte di carnevale che stavano chiudendo e hanno lasciato maschere e tutto e molti sono arrivati lì mascherati per non far chiudere lo stabilimento perché dice che stavano fermando i reparti, la caldaia. Se fermano quelli ci vogliono mesi per riattivarli, e sono arrivati in tempo. Poi non so se era una…una minaccia, però era appena andata in funzione, in produzione. Rimangono le poesie per testimonianza ma penso che mia figlia abbia buttato via tutto quando ha pulito la soffitta.

UC: Le tue?

No non mie, se avessi scritto poesie le avrei tenute ben conservate, no, poesie che scrivevano i dipendenti e che poi…  Gigi Soro mi pare uno che non ricordo chi fosse però ricordo questo libro di poesie e com’è che si chiamava il direttore…che veniva menzionato nell poesie…

UC: A che proposito ti vengono in mente?

Mi sono venute in mente perché raccontavano le vicissitudini di quel periodo. In  sardo, sì, in sardo.

UC: Il tuo primo accenno al sindacato sembrava velatamente polemico, invece ora il giudizio tuo sulla gente che lottava…

All’inizio mica io mi rendevo conto, sicuramente qualcuno ha usato il sindacato per far carriera, questo è alla luce del sole, ma non è neanche detto che all’inizio fosse così, ci credevano davvero, forse le lotte ci sono state, ci sono state per tutti anche se… C’era da parte di molti, c’era una diffidenza sulla donna che lavorava in fabbrica, però non so quanto fosse fondata sul femminismo o fosse una cosa personale, sugli uomini, magari perché non era stata assunta una moglie o una sorella, oppure per dimostrare a chi voleva essere assunta che non era il caso di farsi assumere, di andare a lavorare in…un puttanaio. Però poi non ci ha creduto nessuno, poi alla fine di queste discussioni.

Erano usciti questi titoloni, dei bagni intasati da preservativi e reggiseni (ride) c’era stato questo articolo, il capo del personale si chiamava Valle allora e aveva detto: Domani non ci sarà nessuno, che facciamo senza le ragazze qua? Domani non ci sarà nessuno. E invece c’eravamo tutte. Poi però vedevi le facce delle persone che ti guardavano male, chi rideva, chi invece diceva: oh, ateru che triballu este in cue. Bagassumene b’ada! (ride) Ed erano stati uomini che avevano fatto fare questo articolo sicuramente, però non sappiamo chi, perlomeno io non mi accorgevo nemmeno, ero talmente disinteressata, facevo il mio lavoro, avevo le mie… e le polemiche non mi interessavano.

Era troppo bello per essere vero stare otto ore fuori casa, senza vedere i miei genitori che erano sempre con la scure in mano, questo non va bene, questo non si fa. Cioè la libertà!  Io la cosa che ricordo, che ho goduto proprio della libertà. Perché non mi mancava nulla, nel senso che economicamente davo una mano in casa e per quei tempi non mi mancava nulla. Cosa pretendeva una ragazza di quell’età? Il vestito, il mangiare, la passeggiata domenicale col gelato, e non mi mancava. Era la libertà, trovare questa libertà, cioè uscire di casa alle sette e mezzo del mattino, tornare a casa alle cinque e mezzo di sera senza vederli, senza sentirli dire: cussu est fattu male, cussu est fattu bene, e poite as saludau cussu pizzoccu? ite b’ad cun cussu? Poite fustis chistionande paris? Tu già lo sai… non è molta la differenza che abbiamo di età e Delia ne sa qualcosa, e ne avrete parlato più di una volta.

Così era, perché Angela s’ha pigau una conza po aer nau “ciao” a Angelo Putzolu, unu ighinu – il nostro ex sindaco, sembra davvero l’età della pietra, era una cosa assurda.

UC: Sembra un paradosso perché la fabbrica è il luogo della repressione operaia, così ce l’hanno raccontata….

Per me invece era libertà, dire: oggi sabato devo andare a lavorare per fare straordinario perchè è necessario che io vada e andarsene in giro con gli amici e tornare e non venirlo a sapere loro… Perchè chi potevano chiamare? Non potevano chiamare nessuno, non mi controllavano la busta paga, non l’avrebbero saputa leggere fra l’altro, quante ore… Veniva difficile anche a noi capirla tutta.

UC: Stiamo parlando di due persone civili, io li ho conosciuti i tuoi genitori

Ma scherziamo? Appunto, erano quelle le persone rispettabili, allora.

UC: Corretti, sorridenti, tuo padre era un sorridente

Soprattutto mio padre. Sì. Ma poi son cambiati, col tempo…ma allora, negli anni ‘70-80.

FA: E loro avevano spinto per farti studiare?

Io non ho studiato perché era morto mio fratello proprio l’anno che ho finito le medie, ero già pronta per andare alle magistrali, in collegio dalle suore eh! Come le mie sorelle, che son venute dopo di me, hanno studiato in collegio dalle suore, perché non se ne parla di… Io sono andata con mio padre in camion a Oristano a fare il corso di segretaria di azienda, andavo a pranzo da un mio zio, per finire prima prima frequentavo mattina e pomeriggio perchè era una scuola privata, andavo da tziu Mario Mongili e poi babbo mi veniva a prendere la sera. E vedevo anche lì un’altra realtà, anche quella…poi son stata in collegio un paio di mesi per farmi le vacanze estive sempre dalle suore, dalle giuseppine, che però potevamo prendere il pullman e andare al mare, perché eravamo comunque al sicuro. No? Anche lì poi, fumando in camerone, sai i collegi… Angela ha conosciuto il marito quando era in collegio, non è che poi… Un giorno babbo li ha trovati insieme a uno dei Sanna di Abbasanta, lì babbo passò in camion in quelle viuzze: E cun cussu ite b’ada? Ba’, est fizu de dottor Sanna, nos connoschimos cando nos zughiais a su dottore. Ah…(ride) Quelle erano persone serie, era figlio di dottor Sanna, quindi anche si stavano scambiando un libro… Però per dire, te lo potevi ritrovare anche a Oristano, perché lui andava tre volte alla settimana a Oristano.

UC: Il paese invece – a parte le relazioni dentro la famiglia che erano decisive – come lo ricordi?

Il paese molto pettegolo, erano quelli i tempi. Come ricordo questo paese come mentalità? Una ragazza che aveva avuto un ragazzo era persa, cioè non era più rispettabile. Vedi le ragazze madri, che si sono tirate sù… Hai mi visto una ragazza madre sposata? Io non ne ricordo. Se è stata una scelta oppure cussa no, ca no est seria. Perchè questo era la mentalità.

UC: Tu eri già cattolica allora?

Io ero sempre stata cattolica però in un posto dove l’anticlericalismo era così… per un paio d’anni ho lasciato.

UC: L’anticlericalismo a Ottana? Perchè ti sembrava che ci fosse un anticlericalismo trionfante…era un ambiente di sinistra, con la prevalenza della Cgil, del Pci,  certo laico, te lo ricordi così?

Sì, sì sì.

UC: E lì ti ricordi episodi o anche sentimenti e sensazioni di discriminazione, da parte degli uomini verso di te?

No, verso di me personalmente no, non ho mai sentito… Non so se io ero distratta oppure non ce n’era. Vedevo solo  stima, considerazione. Se ti dico che mi mandano ancora i saluti…

UC: Ma dal contesto, non solo verso di te ma che sulle donne…

Ma comunque io rimanevo un po’ antiquata, io non avevo…

Anzi ti devo dire che una volta a questo proposito c’era una ragazza che vestiva in maniera… Aveva le labbra rosse, metteva un rossetto molto rosso, gli occhi se li truccava molto, di nero, la linea che arrivava fin qui e lei era molto formosa. Metteva pantaloni elasticizzati e le magliette elasticizzate. Se si metteva in una scrivania così (china, appoggiata al tavolo) che parlava con un addetto e gli stava dando istruzioni su come eseguire il lavoro, lei si metteva così (piegata sul tavolo) allora passava qualcuno e le diceva qualcosa… Un giorno mi sono messa io così, in quella posizione e quella passa e dice: Vedi che a Natalina non dice niente nessuno?

E’ diverso, le ha detto quello. E’ diverso. In effetti io avevo pantaloni larghi, anche se mi mettevo così non si vedeva niente, una casacca…

Questo lo dico per dire che non mi sono mai accorta che ci fosse… anzi c’era apprezzamento da parte degli uomini che ti dicevano:  Sempre elegante ma sobria. Una cosa del genere. Invece l’altra esponeva le sue forme in un ambiente di uomini. Addirittura c’è stato un richiamo di una che veniva…allora si usavano le magliette che lasciavano la schiena nuda, il direttore l’ha chiamata e le ha detto: Guarda che non siamo al mare, che è un ambiente maschile e non vogliamo questo vai e vieni nell’ufficio (ride). C’è stato anche questo richiamo. Poi non lo so se queste sono fesserie, anche se parlano del periodo.

VS: E queste tue colleghe che reazione hanno avuto?

Non le hanno più portate dopo il richiamo. Che io sappia non c’è stata conseguenza, che io sappia, ma sai io ero relegata fra magazzino e officine, ufficio delle officine.

UC: Ma quello che dicevi prima, le conquiste delle donne, per i figli, erano nel contratto, come l’avevi vissuta anche la scoperta di quel tipo di diritti?

Erano nel contratto collettivo nazionale. L’avevo vissuta come una sorpresa, quando ho cominciato a vedere il sabato e la domenica liberi. I miei genitori lavoravano anche la domenica (ride).

UC: Tuo babbo aveva il banco di frutta e verdua al mercato

E in più faceva viaggi conto terzi, aveva la fiaschetteria, vendevamo vini e bibite però a casa, un’altra licenza a parte. Praticamente c’era più mia madre che mio padre perché mio padre viaggiava. Mio padre trasportava di tutto, non è come oggi che nel camion se metti frutta non puoi mettere sabbia, se metti sabbia… Mio padre portava anche i morti perché non c’erano i carri funebri per chi moriva in ospedale. Portava legna, portava sabbia, portava blocchetti, portava frutta, portava…tutto, mobili, l’unica cosa che non portava il bestiame. Anche uno sposalizio. Aveva portato gli invitati a Riola,

Semus andaos in caserma e amus pregontau. Basta chi abbarreis totus zetzios, tutti con le seggioline (ride). Ma ascolti signor Masala, se lei vuole rischiare vada, noi non le possiamo dare l’autorizzazione, se la fermano i carabinieri sono fatti suoi. Però al mare già ci accompagnava, ci prendevamo la casa al mare , col telone. E i materassi che piegavi, perché mica prendevi una casa, prendevi una stanza e quando arrivavi lì mettevi i materassi per terra che di mattina riarrotolavi e mettevi in un angolo. Con il bagno in comune col resto del palazzo. A Bosa.

UC: Io me lo ricordo lui, probabilmente accompagnava anche noi.

Noi andavamo in genere con la famiglia Pia, perché eravamo amici di famiglia, avevano iniziato insieme mio babbo con Baroreddu. Peccato che non ci fosse la macchina fotografica. L’abbiamo avuta ma intorno al ’65-64, mio fratello Francesco l’aveva comprata per regalarla a Costantino, che voleva fare il fotografo, con Del Rio si era già messo d’accordo.

UC: Torniamo alla fabbrica. Insomma hai fatto tutti questi anni in una situazione proprio di conquista. Invece che problemi ricorderesti a ripensarci o che già vedevi allora.

Problemi li vedo dal punto di vista ambientale, personale no. Cioè per quanto riguarda i rapporti umani, a parte qualche piccolo fatto personale che non si può raccontare.

UC: Te lo ricordi quanto era lo stipendio?

I primi anni era sempre sui centotrenta centoventi, che poi è andato sempre aumentando, dopo cinque anni prendevamo già cinquecentomila lire. Si facevano dei passi da gigante…

FA: Lo stipendio come aveva cambiato la tua vita?

Guarda, compravo solo più vestiti, non potevi comprare altro. Non mettevo soldi a casa, mai i nostri genitori hanno voluto soldi dai figli, no. Probabilmente perché non ne avevano bisogno, però qualcuno mi ha detto: custa este… una parassita, non dà soldi in casa. Purtroppo c’erano situazioni, c’era una mia collega che il padre era malato, non lavorava, lei era fidanzata, la più grande, ha dovuto far sposare le sorelle più piccole prima di lei perché doveva comprare la camera da letto, l’abito nuziale, fare la festa del matrimonio a tutte, e dopo s’è sposata lei. E questo perché? perché le famiglie erano povere, perché c’era miseria, perché magari uno era a sa zorronada, un padre, oppure aveva cento pecore. A casa i soldi non erano molti ma circolavano tutto l’anno, non aspettavamo la fine della stagione per vedere se l’annata era buona, cioè era diverso il funzionamento. Non è che i miei genitori fossero migliori o peggiori degli altri, mio padre per principio lo avrebbe fatto, invece mia madre diceva: Ih, no c’as a cherrer tranzire unu pratu ‘e pasta a unu fizu?  No, cioè .. Inue bi pappan batoro bi papan chimbe, s’importante est chi si ddhu còllana. Loro non sapevano… Te l’ho detto, se non glielo dicevo io non mi hanno mai chiesto quanti soldi avevo messo da parte.

UC: Cosa ti ricordi invece di situazioni di povertà o addirittura di degrado e come ti ricordi – in fondo l’hai vissuta almeno quanto me – la faida di Sedilo, come si ripercuoteva nella tua vita?

Quella faida, io ero piccola. Io ricordo il giorno che hanno preso Peppino Pes, ti riferisci a quello?

Io ricordo che stavo andando a scuola e il paese era assediato dai carabinieri, c’era un silenzio di tomba. C’ana colliu a Peppinu ‘e Nanneddu. Sottovoce. E poi vedevi che c’erano carabinieri dappertutto.  Poi ero andata a scuola, e in casa se ne parlava sottovoce. Poi ricordo i giornali, mio padre il giornale lo prendeva tutti i giorni mentre pranzava, che magari lui arrivava alle due alle tre da un viaggio – i giornali finché è riuscito a leggere i titoli, solo i titoli perché poi l’altro non lo vedeva, l’ha sempre comprato se non altro per andarsi a fare una passeggiata (ride) – e poi se non aveva tempo lo leggevo io a voce alta per lui, e quindi tutti i processi… Però dire che ho vissuto… C’era, un clima comunque lo sentivo, un’aria pesante, che la gente bisbigliava, allora ricordo questo. Poi, le cose le senti dire tranquillamente e io in questi anni mi sono fatta raccontare tante cose da gente adulta, però allora no, mica ti raccontavano, a una bambina.

Lo sentivi, lo percepivi, questi morti… Questo triplice omicidio sì che me lo ricordo, quello era proprio una cosa che ti lasciava… Così. Paura. Io avevo paura di tutto, del buio, paura di tutto. Dev’essere un po’ dovuto a questo, perché le cose poi si percepiscono senza che siano state dette, sono ancora più enigmatiche, più… Poi certo son venuta a sapere tante cose, dall’una e dall’altro, però quello che io ho vissuto allora era questo, erano queste sensazioni, di questi omicidi. Poi io abitavo… quella casa che ha comprato mio padre a fianco a noi era dei genitori di Solinas, il primo omicidio dove era imputato Peppino Pes, Pasquale Solinas.  Quello era figlio di quei due coniugi, cioè del ciabattino che c’era lì, te lo ricordi?

UC: Adesso ti faccio una domanda un po’ di psicologia spicciola. Per usare altri sentimenti, oltre alla paura di cui ci hai parlato in riferimento alla severità familiare contro la libertà, a cosa assoceresti gioia e tenerezza nella tua infanzia e adolescenza?

Nella mia infanzia e adolescenza pochissimo. Se eri malato, se avevi l’influenza, se avevi la tonsillite, la febbre allora ti compravano i biscotti per farti mangiare, i wafer. Io se avevo la febbre non mangiavo neanche quelli, perché l’appetito ti veniva a mancare. Allora con mio fratello, il più vicino a me, mi diceva: dai digli che ne vuoi e me li mangio io, poi quando ho la febbre io te li mangi tu. Oppure: fizza mia male t’intendes? queste frasi di dolcezza erano solo nelle situazioni in cui stavi male, perché altrimenti…no.

UC: E i giochi dell’infanzia, la dimensione del vicinato?

Io ho sempre giocato a fura perché avevo sorelle più piccole e fratelli più grandi, avevo sempre da fare. Giovanna la cambiavo io, gliela portavo a mamma al mercato ad allattarla. I pannolini non erano usa e getta, e nemmeno quelli con la mutandina di plastica che si annodava, erano dei teli e se si faceva addosso e ce l’avevi in grembo sporcava anche il tuo vestito. Quindi dovevi prenderla, cambiarla, lavarla, lavarti tu. A dieci anni questo (ride). Giochi…a sa fune, quello più concesso. Su ioghu ‘e un’anca fu zai troppu permissivu… Invece due che girano la fune oppure una che salta così, e due che girano la fune…com’era? Mela arancia mandarino zucchero e caffé fragola e ciliegia e quando sbagliavi davi il posto a saltare all’altra che aveva quel nome. Stella stellina quanti passi devo fare per arrivare alla tua casetta…quei giochi.

UC: A un certo punto aprirono le sale da ballo…

”Le belve”. Anche lì di nascosto, sempre. Avevo 17 18 19 anni. Quei tre anni diciamo.

UC: In fabbrica sei entrata nel…

In fabbrica sono entrata nel ‘73, a 23 anni.

UC: Quindi non era un momento liberatorio.

Assolutamente. Nella sala si stava bene perché c’era Franco Sotgiu alla batteria, Pino Melis alla chitarra elettrica, Salvatore Ciulu a cantare ed eravamo tutti ragazzi di famiglia si può dire, vicini di casa. Però non c’entrava niente. Io in dom’e Bergo che facevano i balli, c’era la caserma dei carabinieri vicino a casa quindi facevano i balli in famiglia, mia madre non mi ha mai mandato per esempio. Eppure c’erano i genitori davanti, seduti sotto il camino e i giovani ballando davanti a loro. No, se c’erano balli…il ballo era proprio una tentazione perché tu la tocchi la persona, ti avvicini troppo.

FA: Come ha vissuto la tua partenza a Terni la tua famiglia?

Ero già cinque anni a Ottana quando sono andata a Terni. L’hanno vissuta bene, contenti, hanno pensato che se mi avevano preso a qualcosa valevo. Se no non mi avrebbero….Sigomente non semus mai onas a nudda, manna ‘e badas (i complimenti erano questi)…Quando io dico qualcosa ai miei figli come frase già detta, frase fatta che si usava allora, si offendono! Devo spiegare che è una frase fatta: guarda che questo mi è venuto perché mi sono ricordata di una cosa che diceva babbo. Pares istrochind’attere…

UC: La chiesa, il parroco…come te lo ricordi in quegli anni lì?

In quegli anni lì don Pinna era una cosa da temere. Lui per me era…anche se ero piccola, era tutto peccato. Ci eravamo mascherate con Lucia de Culittu un giorno, e lui aveva appena detto a scuola che era peccato mascherarsi. Noi siamo scappate quando lo abbiamo visto, eppure eravamo mascherate, non ci avrebbe riconosciuto. Eppure siamo scappate, talmente avevamo paura. Il senso di colpa. Invece a casa il carnevale, almeno da piccole, era… soprattutto quando non c’erano sale da ballo, quando si andava nelle case così per divertirsi: ti conosco, non ti conosco, e poi ti togli la maschera alla fine. Don Pinna secondo me ha…ha travisato, non ha dato un esempio positivo sul cattolicesimo, di come è veramente la religione. Io l’ho capito da adulta cosa è la fede e cosa è la religione, e non è come diceva lui, no.

UC: Tu hai avuto molti lutti, tutti li abbiamo avuti ma voi di più, molti lutti. Tra tuo fratello, tua sorella… Come li hai vissuti?

Ci sono anche quelli che non ti ricordi. Prima che nascesse Giovanna ho perso un fratellino di un anno, nato nel ‘57 e morto nel ‘58. Poi è nata Giovanna nel ‘59. Questo fratellino aveva l’anemia mediterranea quindi piangeva giorno e notte a parte i primi due mesi che sembrava normale. Poi ha iniziato a impallidire, anziché crescere dimagriva… E un altro era nato e morto a Carbonia, il secondo dopo Francesco. Però io quello non lo posso ricordare. Invece questo ricordo che mia madre si buttava sopra la culla a piangere, tant’è vero che mio padre ha dovuto togliere la culla e portarla in un’altra casa. Lo ricordo come una cosa veramente brutta vedere tua madre che soffre. E poi come… E’ morto che io ero a casa e non mi hanno mandato a scuola, avevo sette anni. Mi hanno mandato a casa della madrina, il bambino così in braccio a mio padre, spirato, in braccio a mio padre: bae a domo ‘e sa madrina e narabbiddu ca su pitzinnu ch’est mortu, chi enzada. Sette anni. E poi mia madre che piangeva, che si buttava sulla culla, ma non il giorno…giorni e settimane dopo. Poi è rimasta incinta di Giovanna e aveva paura che nascesse malata anche lei, quindi non ha neanche vissuto una bella gravidanza. Poi gli altri…è morto nel ‘65 mio fratello Costantino e nel ‘72 Francesco. Incidente stradale Francesco a Ravenna, uno scontro frontale per la nebbia, e Costantino invece aveva preso in prestito un motorino da un altro, lui gli aveva prestato in cambio la macchina fotografica e questo gli ha prestato il motorino. Dal distributore a San Basilio, alla curva ne è uscito. Aveva sedici anni e due mesi, no, tre quattro mesi. Drammi. Masaleddu mortu, appo intesu in s’ora ‘e ricreazione. Masaleddu era babbo, non era lui. Qualche ragazzino aveva detto così, si vede che anche a lui qualcuno lo chiamava così. Sono venuti a prendermi da scuola, babbo non c’era era al mercato di Oristano. Io non l’ho neanche visto. Il trauma maggiore è che non li ho visti. Quello che per anni mi sono portata appresso è che non avendoli visti morti, né l’uno né l’altro, quando avevamo la televisione accesa e c’erano manifestazioni, affollamenti di gente, guardavo sempre e pensavo che forse avevano sbagliato persona (soprattutto per Francesco) e che poteva essere vivo da qualche parte. E guardavo la televisione se riuscivo a intravedere qualcuno che poteva essere lui. Giovanna…Giovanna l’ho seguita da vicino, l’ho vestita, l’ho vista morta e sono convinta che è morta, non la guardo in televisione. Giovanna aveva 49 anni, è morta nel 2009. E poi mio marito, anche quello un lutto che mi ha messo k.o. L’assenza, proprio l’assenza, la sua mancanza. Non sono più…non valgo più a niente ora senza di lui. A me sembrava che in questa casa fossi io a prendere le decisioni, invece non era così, non riesco più a prendere decisioni, non ci riesco più. Evidentemente le prendevamo…se lui era d’accordo mi diceva sì, se non era d’accordo no. Quindi sembra che…sì ok Natalì dai…e poi invece dico: ma si non seo bon’a nudda sola. Quando due sono assieme da tanti anni, hanno fatto tutto insieme, non è che le cose le fa uno o l’altro, sono state fatte assieme. Se poi non c’è più quest’altra parte…

VS: Quanti anni avevi quando vi siete fidanzati?

In un anno ci siamo conosciuti, fidanzati e sposati. Io non lo conoscevo, nonostante la sua residenza fosse in via Sant’ Antonio come me. Viveva in Germania, era emigrato. L’ho conosciuto in ferie, quando lui era in ferie qui, nel ‘78. Nel ‘78.

VS: Quindi lavoravi già in fabbrica.

Sì.

UC: Torniamo alla fabbrica. Quale era l’aspetto negativo del quale stavi parlando?

La cosa negativa è che la fabbrica non era sana, che non era sicura, non c’erano quegli accorgimenti che ci devono essere nelle fabbriche dove circolano materiali pericolosi. Non c’era la sicurezza. Questo non è che lo dico io perché l’ho visto, lo dico per sentito dire. Mio marito girava tutto lo stabilimento essendo manutentore, faceva il saldatore ad Argon di acciaio inossidabile quindi nelle caldaie ci andava solo lui e un altro e sono morti tutti e due di tumore. Lui è capitato che è restato lì 36 ore senza rientrare. Tanto è vero che al mio capo, la mattina alle 8 entrando in stabilimento, l’ingegner Frau manutentore e capo della manutenzione, gli avevo detto: mi avete sequestrato mio marito, ingegnere? E lui: oi Natalina guardi…c’ero anche io stanotte. Lui mi chiamava signora, era troppo signore quest’uomo. Gli ho detto: mi chiami per nome altrimenti mi sento… Era troppo buono, mi lasciava i giornali. Lui arriva con i giornali sottobraccio, me li metteva sulla scrivania e mi diceva: quando non hai niente da fare se li legga. Pensa, quando non ha niente da fare. Se li legga. Cosa fa una persona se non ha niente da fare ed è in un ufficio, se ne va a casa? No, perché aspetta che a qualcuno serva che gli batti a macchina una lettera, e non te ne puoi andare. Quindi puoi leggerti pure il giornale. Perché io le cercavo tutte per non stare senza far niente, ma quella mezz’ora, quell’ora la trovavi, su otto ore. E lui mi lasciava i giornali: quando ha tempo se li legga. Me ne lasciava due o tre.

UC: E lui che ti dice?

Lui mi dice: se fosse stata in Germania o in Svezia una fabbrica del genere sarebbe stata…i dirigenti in galera e la fabbrica chiusa. Come si può, diceva, discariche a cielo aperto di non so cosa…ma dov’è la sicurezza? Mio marito in Germania, Svezia, Olanda, Finlandia se entrava a fare una saldatura qua in questa porta usciva dall’altra, entrava in bagno, si cambiava, lasciava la tuta e tornava a casa con abito civile e quelli li lavavano lì. Qui, me li portava a casa e la macchina dove ci salivamo tutti era quella dove lui si sedeva con la tuta. Non erano, non eravamo tutelati. L’aria condizionata era collegata all’aria esterna quindi era inquinata. Una volta hanno rotto qualcosa, io ricordo che al timbro del cartellino c’erano anche gli operai del magazzino e non si poteva stare, io stavo per svenire dall’odore che avevano sulle tute. Non va bene. Poi nel magazzino facevamo anche spuntini (ride) nei gabbiotti del magazzino.

UC: Allora non venivano fuori queste questioni?

Noi ci lamentavamo, magari ce ne andavamo a casa la sera, timbravamo un cartellino: ma cosa avete rotto? una bottiglia di acido non so che cosa…

VS: Non c’erano sollevazioni o scioperi di gruppo, proteste?

Di quel tipo no. Secondo il mio ricordo gli scioperi avvenivano solo per questioni economiche, politiche, ma mai sulla salute. Mai sulla salute. Secondo me avevamo anche paura, di perdere il posto di lavoro. Secondo me, a pensarci bene e riflettendoci sù. Perché comunque ci dava il pane, a quante famiglie…tante. Tutto il centro Sardegna ha avuto…l’economia è cambiata, è cambiato il modo di vivere.

UC: Di vita sindacale e politica tu che cosa hai fatto direttamente?

Mi incuriosiva, andavo alle manifestazioni, diverse volte a Cagliari. Certo non ero tra quelli che ”Il prezzo della carne è aumentato vogliamo Cossiga macellato” oppure…ricordo che c’era una donna che stava uscendo da una chiesetta, si è fatta il segno della croce ed è scappata, ha sentito questo slogan: “la mettiamo in culo a voi…sempre in culo agli operai ma d’ora in poi d’ora in poi la mettiamo in culo a voi” qualcosa del genere, non lo ricordo bene ma era questo…l’inizio non lo ricordo ma il finale era questo. E questa donna….(ride)

Poi ho fatto anche parte, ma era più per gioco, per un periodo ho fatto parte del nel Nucleo aziendale Socialista. Non è che fossi così preparata però si vedeva, volevano inserire donne, capito? Siccome avevo la tessera, per un paio d’anni appunto, quindi…

UC: Un po’ di vita politica l’hai fatta. E sindacale? Alle assemblee partecipavi?

Ricordo il bellissimo intervento che aveva fatto Berlinguer, quando era venuto…anche io sono andata però avevamo un’ora ognuno di permesso, era pieno. Primi anni ‘80. Prima prima veniva molto Pannella, la sua collega, come si chiama? Emma Bonino. E Adelaide Aglietta. Lì, poi soprattutto perché c’era Tania… Tania era milanese e poi Pio l’aveva portata qua, conosciuta lì. Per quello aveva questa apertura mentale che noi nel centro Sardegna…Anche se poi sono arrivate anche ragazze sposate con sardi da Ravenna, dall’Umbria, dalla Sicilia…Però sindacalizzata era Tania. Il capo la voleva fare fuori, me l’ha detto a me: però non ci riesco, mi ha detto, perché lavora troppo bene. Lei ti faceva il lavoro…è ovvio, noi stavamo imparando, lei aveva già lavorato e sapeva fare tutto bene, e sapeva anche i suoi diritti però. Se andava a prendersi un caffé o se andava in bagno e ci restava per mezz’ora perché era stitica glielo diceva al capo, in faccia, non lo temeva. Non era una che si faceva mettere i piedi in testa. E questo la detestava perché non voleva che ci traviasse e  me aveva detto una volta di dargli una mano che avrebbe voluto farla fuori, se riuscivo a coglierla in fallo. Ma lei era troppo furba, troppo intelligente.

UC: Allora eravate dei privilegiati. Ti sentivi come tale?

Sì, devo dire la verità. Privilegiata perché avevo un lavoro, uno stipendio fisso, e che poi prendevamo molto.

Però per dire, eravamo…era uno stipendio che era il secondo come contratto. Prima di noi in Italia solo i bancari. noi avevamo un contratto chimico pubblico e quindi lo stipendio era abbastanza alto se pensi che qualcuno monoreddito in una famiglia ha fatto anche la casa…Vuol dire che gli stipendi erano buoni se no non ce la fai. Oggi neanche a pensarci, neanche con due stupendi. E’ vero che avevamo un percorso di vita molto più tendente al risparmio, mentre oggi si entra tranquillamente al bar, si va tranquillamente in pizzeria, se non si fanno le ferie non ti senti, non è giusto perché se lavori tutto l’anno ne hai diritto. Invece allora si rinunciava per poter realizzare qualcosa. E’ vero anche quello. Però oggi i miei figli dicono: e se rinunci non ti rimane niente lo stesso, non risolvi nulla quindi tanto vale che non rinunci. Non de tenias e non de tenes, dopo che hai rinunciato.

UC: A un certo punto l’esperienza finisce. Eri dispiaciuta di non poter tornare?

E’ stato…però poi mi sono anche realizzata nel matrimonio. All’inizio risentivo della mancanza, poi mi rendevo conto di quanto la mia presenza fosse necessaria anche in casa e tutto sommato mi sentivo una privilegiata proprio per quello. Dicevo: io sono una casalinga retribuita, sarebbe giusto che lo fossero tutte. Non è che io se ti pagano, dicevo a qualcuna, non sono contenta, io sarei contenta che le casalinghe venissero retribuite perché non stanno facendo un lavoro per sé stesse e basta, lo stanno facendo per la società, per un futuro.

UC: Nella famiglia di origine Giovanna e Angela erano andate a studiare, per decisione di chi? Spinta dei genitori?

Assolutamente no. I maschi sì, babbo era disposto a restare a Carbonia se i maschi volevano andare a studiare, sì sì, i maschi sì, ma per le femmine non ci teneva. Però visto che Angela voleva andare…dalle suore ok. Poi Giovanna ha scelto di andare ma si è laureata lavorando. Babbo diceva: itte cheres prus de unu diploma de mastr’e iscola? A su manzanu triballat et a su sero non tenet nudd’e faghet e cheret istudiare, no custa no est zusta (ride)

UC: Va bene, abbiamo finito. Che ore si sono fatte?

Abbiamo parlato di tutto fuorché di Ottana….Guarda io davvero, si sono meravigliate persone che mi hanno chiesto cosa ho trovato a Ottana e io ho risposto, la libertà. Mi è venuta così spontanea…e mi hanno detto: lo sa che è la prima persona che mi risponde così? Tutti mi hanno detto: da mangiare. Io, se volevo fare un dispetto a mia madre, non mangiavo ed era il più grande dispiacere che le potessi dare. Mi bussava alla porta. Mi chiudevo a chiave se non mi faceva uscire: io non ho fame. Poitte no pappas? Un giorno mi ha detto: po’ s’amor’e Deus, narami itte cheres ca ti fazzo su chi cheres basta chi pappes. E io volevo uscire, non volevo mangiare. Quindi io a Ottana cosa ho trovato? La libertà!

UC: Tu sei la terza intervistata, gli altri non dicono la libertà ma comunque una forte…emancipazione.

Be’ sono maschi. Solo io e Maria Muredda abbiamo lavorato a Ottana, Enichen. Poi qualcuna ha lavorato in mensa per qualche anno.