Episodio 10 – Pinuccio Salis

Pinuccio è il primo intervistato del progetto storieoperaie. L’incontro con lui è a casa di Gianni Carta e Laura Muredda, in una stanzetta costruita sotto un piccolo porticato del cortile. Gianni è un amico in comune, nostro e di Pinuccio, insieme sono stati candidati alle elezioni comunali a Sedilo, nel 2017. Burgos è il paese di origine di Pinuccio, ma abita con la famiglia da quarant’anni a Sedilo, dove gli venne assegnata una delle case dell’Anic. Assunto a 24 anni a Ottana, è stato uno degli ultimi operai a essere licenziato, vedendo il decollo e poi la fine di quell’esperienza industriale. E’ proprio durante il periodo di cassa integrazione che deicide di avviare un’azienda di famiglia, produzione di pane fresa. È la moglie la vera esperta di panificazione, lui si occupa di ogni altro aspetto. Oggi in pensione, continua ad aiutare in panificio ma la gestione è quasi interamente nelle mani dei tre figli.

UC: Allora Pinuccio, io ogni tanto ti faccio una domanda…mi racconti la tua vita. Ti chiami… 

Salis Giuseppe. Nato a Burgos 3 novembre 1956.

UC: Di che famiglia eri? Quanti eravate? In che situazione vivevate? Come ricordi il paese?

Eravamo una famiglia numerosa, otto figli, mio babbo  pastore, mia mamma casalinga. Ho fatto la terza media, c’era già la scuola media, l’avviamento l’avevano fatto i fratelli più grandi, c’era già la scuola media. Anzi andavano a Bono a fare l’avviamento.

UC: Quanti maschi eravate?

Eravamo cinque maschi e tre femmine, adesso siamo quattro, uno è morto, il più grande.

UC: Tu in che ordine venivi?

Io ero il settimo.

UC: Una famiglia di campagna che campava bene o no?

Diciamo che a quei tempi quando ero piccolo io si viveva…non male perché da piccoli abbiamo iniziato a lavorare tutti quanti e quindi portavi tutto dentro a una saccoccia, che sarebbe la famiglia, e quindi si riusciva a stare discretamente. Io ricordo che avevo sei anni quando mio babbo pure avendo già una casa  ne aveva comprato un’altra più grande, e abbiamo cambiato abitazione. Diciamo che stavamo bene.

UC: Tuo padre aveva la campagna di proprietà? Che bestiame aveva?

Aveva pecore, i maiali non sono mai mancati e neanche le galline che era una cosa importante per l’economia (di una famiglia). Terreni di proprietà e terreni in affitto.

I terreni di proprietà non erano così tanti però piano piano ogni tanto si comprava un appezzamento di terreno, vicino a dove ce l’aveva.

UC: Non te la ricordi come troppo dura quindi…

Dura, dura sì. Mi ricordo quando ero piccolino che andavo ad aiutare, e non è che c’erano i capannoni, le mungitrici. Bisognava fare tutto con le fasce di legno, sia dove dormivano le pecore sia dove si mungevano. Quindi si facevano le fascine e poi si dovevano trasportare. E io ero un “portatore” (ride) di fascine. Per dire. La vita dura l’ho conosciuta.

Io quando ero all’asilo andavo scalzo, quando avevo cinque anni. Era vicino a casa però non c’era l’asfalto, non c’era niente, ci si doveva abituare.

UC: Il paese come te lo ricordi? Che dimensione aveva?

Abitanti…molti più di adesso. Allora era intorno ai millecinquecento abitanti, adesso ne fa poco più di novecento. Però rispetto ad adesso trovavo le strade molto più pulite rispetto ad adesso, questa è una cosa che mi è rimasta, perché tutte quante le persone, le donne soprattutto, si pulivano gli spazi davanti a casa e anche oltre spesso. Quindi le strade non erano mica piane, però…

Dopo di ché…io non volevo fare la vita del pastore. Non volevo farla per varie ragioni, che adesso non sto qui a elencare…

UC: Dille pure

Non mi piaceva per il mondo dell’abigeato, non mi è più piaciuto per quel motivo lì perché se io facevo veramente il pastore non so come sarebbe andata a finire, io sono così. Ho deciso io di intraprendere un’altra strada. Ho fatto la scuola alberghiera ad Alghero, mi sono diplomato e ho lavorato lì, poi sono emigrato in Svizzera a diciassette anni, stavo lavorando lì all’aeroporto di Basilea, sempre come cameriere nel ristorante dell’aeroporto.

UC: Ad Alghero eri andato di tua iniziativa? I tuoi ti spingevano o ti avrebbero voluto a casa?

Mi avrebbero voluto a casa, sempre a casa. Sempre a casa. Volevano che andassi a continuare a studiare, però io vedevo la cosa più pratica, immediata, che non magari uno studio lungo…volevo lavorare presto. Mentre stavo studiando e siccome sapevo anche le condizioni economiche della mia famiglia, quando andavo a studiare ad Alghero che vivevamo lì, lì si mangiava e si dormiva, tutti però divevano farsi le proprie cose. Si doveva cucinare…chi era nel reparto dei cuochi faceva la cucina, chi era nella ristorazione nel bar faceva ristorante e bar, quindi lavoravi. Si facevano quattro ore di studio e quattro ore di pratica. Imparavi subito anche il lavoro.  Dopodiché io la domenica quando non potevo venire in paese mi sono cercato un paio di ristoranti e andavo a lavorare lì, facevo pratica e mi facevo i soldini della settimana, senza chiedere niente alla famiglia.

UC: E invece com’è successo che sei andato in Svizzera?

Nel 1973, ad agosto ‘73, io lavoravo a Villasimius in un ristorante di un albergo. Dopo di che era venuto mio fratello che era già in Svizzera e mi ha detto: Vieni con me che ti sistemo io lì, e starai benissimo in Svizzera, te lo assicuro. Ho dato retta a lui che era più grande e ho trovato subito il lavoro.

UC: Tuo fratello più grande quindi era in Svizzera, e gli altri?

Erano tutti a casa. Tranne un altro fratello lavorava a Sassari come infermiere, gli altri erano tutti a casa.

UC: E’ lui che è morto (di recente)?

No, è quello che viveva in Svizzera. Era il più grande.

UC: Insomma arrivi in Svizzera, in una situazione di relativa tranquillità…

Sì sì sì. Lì io stavo benissimo, guadagnavo una barca di soldi rispetto a qua, guadagnavo tre volte tanto. Stavo bene e volevo rimanere lì, dopodiché invece a marzo del ’74 sono dovuto rientrare perché era morto mio padre. E…e lì è stata un po’ la svolta della mia vita. Io volevo ritornare lì

UC: Avevi diciotto anni?

Neanche compiuti perché li compievo a novembre. E…mia madre mi diceva: Non andare via, devi rimanere con tuo fratello in campagna. Mio fratello all’epoca aveva quindici anni. E io le ho detto: No, voglio ritornare. Poi invece il senso della famiglia mi ha fatto rimanere qua ad aiutare mio fratello, non me la sono sentita nemmeno io di abbandonarlo, quindicenne…non aveva neanche finito la terza media. A quel punto lì son rimasto e avevo fatto richiesta a Ottana.

UC: Come l’avevi saputo? Com’era andata? Stavano già inziando…

Sì perché i primi spietramenti sono iniziati nel 1969, dopodiché le assunzioni sono cominciate subito dopo, nel 71- ’72-’73. Io sono entrato per un’impresa esterna che lavorava nella costruzione dello stabilimento e dopo da lì sono entrato in automatico all’Enichen. Prendevano le persone delle imprese che man mano finivano i lavori.

UC: Quella è una conquista del sindacato, Mussoni, Saverio…perché riuscirono a far passare la linea con le imprese esterne che poi imposero un limite di età, però entro quell’età vennero presi tutti.

Non tutti, ma il 90% sì. Se non avevi la quinta elementare magari non entravi, era dalla quinta elementare in poi.

UC: A te ti hanno preso con che qualifica?

A me mi hanno preso come operatore. Io lì ho fatto un errore, l’ho fatto io non gli altri, perché io non ho messo il mio titolo di studio – anche se non serviva niente però era qualcosa di superiore alla terza media, un diplomino- che mi avrebbe consentito allora di entrare subito come capoturno. Io ho ragionato così quando ho compilato il foglio: cosa ci fa qua un diploma di cameriere…e non ce l’ho proprio messo. Non ce l’ho proprio messo. Questo è stato un mio errore fondamentale. Perché nel proseguo degli anni, nello stabilimento, se io avessi avuto quella qualifica che mi avrebbero dovuto dare come diplomato, avrei guadagnato già da subito un bel po’ di soldi e avrei avuto tante più agevolazioni rispetto ad altri. Però…non vado a rimpiangere niente, quello che è successo è successo, sto bene così.

UC: Quindi entri lì, dopo quanti mesi di lavoro in imprese esterna?

Io ero entrato il primo aprile ‘74, nell’impresa, il primo gennaio del ’75  io avevo iniziato il corso (si faceva il corso retribuito, però…) e poi sono stato assunto definitivamente il 19 marzo 1975, definitivamente. Il corso l’ho fatto Ottana stesso, era un corso accelerato, di valutazione, volevano capire…

UC: Cosa potevi fare diciamo… Quindi assunto nel ‘75, reparto? Racconta l’esperienza, cosa hai trovato una volta arrivato lì.

Intanto ero soddisfatto e contento perché sono entrato in un posto di lavoro e potevo ai tempi avere quella soddisfazione di essere autonomo, di gestirmi io, di non dover chiedere niente a nessuno. E questa era la mia prima soddisfazione personale. Dopodiché sono entrato lì e ho conosciuto molte persone, questo è un bene conoscere molte persone, non è un male, e ti fanno crescere. Ho cominciato da subito a fare i turni.

UC: Con che mansione?

No…operaio.

UC: In cosa consisteva? Racconta.

Il primo periodo avevo fatto, dal giorno dell’assunzione alla fine di dicembre dello stesso anno ‘74, ero in un reparto dove si confezionavano le scatole dove mettere un prodotto che si chiamava Mischia, un miscuglio di fibre per poter fare poi lavori successivi. Noi facevamo solo il prodotto grezzo poi in altri impianti veniva lavorata la fibra acrilica. Dopo sono passato in un altro reparto di produzione sempre della fibra acrilica, si chiamava di DIOPe e sono stato lì fino all’80.

UC: Quale era lì la manualità tua?

Controllavo la produzione, se era di qualità, se c’era un’anomalia andavo a dirlo al mio capo turno, dopodiché si verificava. Però dovevi controllare se andava bene, se era umida, se era secca… A mano, a mano, te ne accorgevi a mano quando scendeva la fibra.

UC: Ti piaceva quel tipo di lavoro?

Diciamo che…non era il massimo di quello che io volevo, però questo era quello che passava il convento (ride) come si dice, dopodiché dovevi farlo. Poi mi avevano spostato di reparto perché aavevano fatto dei cambiamenti enormi, avevano chiuso – nell’83 o ’84 non mi ricordo bene – la filatura a filo e quindi avevano fatto diversi passaggi di operatori, e poi anche a me mi avevano spostato a un impianto chimico che era l’acido tereftalico, e lì io stavo benissimo, non bene! 

Tutti quanti dicevano : Io lì non ci andrò mai. Eppure io lì mi trovavo bene, perché l’impianto era un impianto all’aperto. Dove lavoravo prima erano reparti sempre chiusi, tu da quando entravi sino a quando uscivi non vedevi la luce del sole, mentre lì era all’aperto. Quindi a me mi piaceva per quello. Era magari pericolosissimo, si alvoravano tutti gli acidi che servivano per fare i polimeri, però a me mi piaceva. Ero soddisfatto, anche perché mi gestivo un piccolo reparto piccolino, me lo gestivo bene con i colleghi.

UC: Lì cosa facevi? C’era manualità o erano più strumenti?

Il primo periodo ci avevano detto che dovevamo mettere il manganese per fare delle soluzioni per questo prodotto, si faceva proprio all’antica, si prendeva la pala e si metteva dentro queste enormi cisterne dove c’erano i reattori e cose del genere. Poi si prendevano i campioni da analizzare da portare nel laboratorio e dopodiché anche lì sempre restringendo il personale… mi hanno cambiato. Io lì ho fatto un po’ di resistenza perché non volevo andarmene da lì perché lì mi piaceva. Poi ho trovato un’ottima collaborazione dal caporeparto, all’operaio, ai capi turno, ai quadristi. Ho trovato la massima collaborazione di lavoro, di complicità nel lavoro anche, e mi sono trovato molto bene. Poi mi hanno, cambiato ero sempre al Fiocco, filatura Fiocco, contro le mie resistenze. O vai o vai.

UC: Perché non ti piaceva lì?

Perché dovevo essere di nuovo rinchiuso. Non vedevi la luce del sole. Capannoni enormi, macchinari rumorosi. C’erano, se ti dico, più di cinquecento motori sempre in moto ventiquattr’ore su ventiquattro. Dentro questo capannone, tu come ti potresti sentire? Non respiravi all’aria aperta. Dopodiché nel ‘97, il 31 dodici ‘97, ha chiuso definitivamente la produzione del Fiocco.  Allora sono andato un anno in trasferta a Porto Torres, ho lavorato lì a Porto Torres in un impianto chimico, forse molto più pericoloso rispetto al tereftalico, però mi è piaciuto. Mi piaceva moltissimo. Eri fuori, eri all’aria aperta, per me l’aria…

UC: In cosa consisteva il lavoro?

Lì arrivava il prodotto primo che era il petrolio grezzo, a Porto Torres, dopodiché c’era la separazione dei prodotti con degli altiforni che separavano i gas liquidi dai gas pesanti, poi c’erano gli oli pesanti che venivano…e lì si facevano anche le benzine, i gas e così via dicendo.

UC: Questi processi li avevi scoperti a Ottana o a scuola?

No, no.

UC: Raccontami proprio il senso di scoperta, che preparazione avevi tu.

Il senso di scoperta…a me piaceva molto. Non avevo nessuna preparazione.

UC: Che dal petrolio veniva fuori la fibra forse non lo sapevi…

No, non lo sapevo però me l’hanno insegnato. C’è un capoturno che mi dice: Tocca, toccala, vedi come la senti, come non la senti, vedi se è ruvida, se è elettrizzata, se non è elettrizzata, tutte queste cose qua. E anche lì ho avuto dei buoni insegnanti, operai come me che però avevano anni di esperienza, mi hanno insegnato come si faceva il lavoro e io ero molto soddisfatto.

UC: A Porto Torres un anno, e poi?

Poi sono rientrato perché il contratto prevedeva un anno, e poi fuori. Ero partito a gennaio del ‘98, a febbraio ‘99 sono rientrato e dopo di che ho fatto tre anni di cassa integrazione. Ho fatto tre anni di cassa integrazione…io volevo andare da qualche parte, loro mi dicevano non c’è posto, non c’è posto. Poi mi hanno richiamato, nel 2001, a dicembre del 2001 mi hanno richiamato e sono entrato di nuovo a Ottana a lavorare. Dieci anni li ho fatti in portineria, poi ho lavorato dai vigili del fuoco, in infermeria e poi al depuratore, gli ultimi anni li ho fatti al depuratore.

UC: Nel frattempo la produzione si era ridotta?

Non c’era quasi più niente di produzione, erano rimasti soltanto i polimeri con il tereftalico, la centrale, e poi c’era anche la…… che c’è ancora, l’unica all’interno dello stabilimento, la Corstyrène, che lavora materiale per l’edilizia, cartongesso, polistirolo e cosa del genere, ed è l’unica realtà all’interno dello stabilimento. Poi c’è questa piccola centrale elettrica, tutto il resto è dismesso, a l’olio di palma…ci sono un paio di ragazzi di Sedilo che ci lavorano ancora, e poi c’è il depuratore che è importante non solo per l’interno dello stabilimento ma per tutto il territorio, sia nell’area di Bolotana sia in quella di Ottana. C’è una grossa realtà ancora, centoventi centoquaranta dipendenti. Quella che fa le guarnizioni.

UC: Dal 2001 però era cambiata la musica. Come sei stato in quegli anni? Sapevi che andavi verso la pensione…

Io potevo andare via nel 2004, con quattro anni di cassa integrazione e tre anni di mobilità però io non ho accettato, non mi interessava né la mobilità e neanche la cassa integrazione. La cassa integrazione mi ero già stancato di farla. Anche se personalmente per me e per la mia famiglia, è stata una buona cosa cosa perché lì con mia moglie abbiamo iniziato a fare il pane.

UC: Raccontiamola adesso questa fase. Intanto tu ti sposi a che età?

Io mi sposo che sono molto giovane, non avevo neanche ventiquattro anni.

UC: Tutto prematuramente. Anche in fabbrica a 24 anni eri già all’Enichen. Ti sposi con chi?

Mi sono sposato con Lidia che è nata a Bono, un paese vicino al mio. L’ho conosciuta a casa sua perché io avevo degli ottimi rapporti con i fratelli che facevano i trattoristi e che noi chiamavamo puntualmente tutti gli anni per arare, seminare, falciare, imballare, insomma tutto quello che c’era da fare, che concerne la campagna. A ventiquattro ci sposiamo nel 1980. Abitiamo a Bono, per tre anni abbiamo vissuto a Bono in una casa d’affitto e dopodiché ho deciso di venire a Sedilo ad abitare. Non perché qualcheduno me lo avesse imposto, ma perché non avevo la possibilità di entrare a Bono nelle case dell’Anic, della fabbrica, e poi essendoci da da scegliere altri paesi ho scelto Sedilo. Ritenevo giusto perché era vicino al mio e al paese di mia moglie, a dieci minuti dal lavoro, e poi di Sedilo conoscevo molte persone, molti colleghi di lavoro e mi sono trovato subito bene, devo dire la verità, mai avuto screzi con nessuno.

UC: Quindi iniziate a mettere sù famiglia…

Avevamo già due figli, Michele il secondo è nato un mese prima e poi siamo scesi a Sedilo. Noi adesso all’otto di novembre facciamo trentassette anni qui, che abitiamo a Sedilo, e quaranta di matrimonio.

UC: A un certo punto vi viene in mente di mettere su un’impresa. Come mai?

Quest’impresa è nata per gioco. Io ero, sono sempre stato, anche adesso, nell’ambiente dello sport, del ciclismo, e ci hanno invitato a uno spuntino di fine stagione a Oristano, abbiamo portato il nostro pane perché il pane io e mia moglie ce lo facevamo a casa a Burgos, così abbiamo messo questo pane per una cinquantina di persone, in dieci minuti ci siamo seduti e non c’era più pane. E tutti che mi dicevano: Chi te l’ha dato, come si fa a trovarlo? Io e Lidia ci siamo guardati e abbiamo detto: Quasi quasi…facciamone un’attività. Io ero in cassa integrazione allora, e abbiamo iniziato così. Prima lo facevo a Burgos, perché a Burgos mi stavo facendo la casa dopodiché quando sono andato in cassa integrazione mi sono fermato. Avevo ultimato lo scantinato, avevo fatto il magazzino, il bagno,  la cucina rustica. E la prima cosa che ho fatto era il forno, il forno per noi era sacrosanto. Era tutto quanto a norma, impianellato, c’era la luce, l’acqua, non mancava niente. Io volevo farmi lì la casa. Quello mi è servito per cominciare. Avendo tre figli pendolari, due che studiavano due a Macomer e uno che studiava a Ghilarza, i soldi della cassa integrazione erano pochi, non erano chissà quanti…e cercavo di arrotondare facendo così, e devo dire che è stata una buona idea. Nel male della cassa integrazione ne è nata un’attività. Di questo devo ringraziare sempre mia moglie. Lei da ragazzina di nove anni faceva il pane.

Facevano il pane in famiglia, era una famiglia numerosissima, molto più di noi, erano undici figli, e sono ancora undici figli, tutti viventi grazie a Dio.

Noi ci siamo sempre fatto il pane in casa, il nostro pane carasau, ed è nata questa attività. Piano piano, conosci uno e conosci l’altro, ce l’hanno apprezzato e poi ho pensato un attimino ai ragazzi, ai miei figli.

UC: A costruire qualche prospettiva

Aspettare che gli altri assumano, così, io non la vedevo di buon occhio, anche vista la mia esperienza, perché se va male poi stai senza far niente. Io ho sempre detto che se uno lavora onestamente riesce a fare tante cose. Anche se paghi tante cose in più rispetto a quello che dovresti pagare – perché ci sono molti che non pagano –  però…devo essere sincero, io ho detto: Quello che faccio sono sicuro che lo sto facendo per me, per la mia famiglia e dal lavoro si possono fare tante cose. Così ho pensato anche di farlo fare a loro. Prima di aprire questa attività ho parlato con i ragazzi a casa, con mia moglie, se loro erano contenti o meno. Stavano ancora studiando, Pietro aveva diciannove anni, Michele ne aveva diciotto, hanno un anno di differenza, e Nicole aveva sedici anni.

UC: Stiamo parlando dei primi anni 2000….

C’è stato un aiuto da parte della legge 37 che è stato importante, fondamentale anche per certi versi, poi il fatto di acquistare un locale e farmi un prestito intestato a mia moglie che aveva delle agevolazioni a livello fiscale anche, è stata un’altrabuona cosa. Ho detto: col lavoro si paga, e domani hai un capitale, se malauguratamente ti va male lo rivendi. Almeno quello che ci hai speso lo recupereri, però se vai a lavorare ti licenziano, è vero che non perdi niente ma perdi lavoro e per noi il lavoro è importante.

UC: Lì hai scoperto un tuo talento imprenditoriale ovviamente, perché le cose che dici sono tipiche di chi ragiona così…questo dell’autonomia, del non dipendere…del commerciale, perché tu andavi a portare il pane nella prima fase, lo ricordo. Non andava tua moglie.

Sì sì, andavo io non mandavo i ragazzi né mia moglie, mia moglie non è mai andata. Diceva sempre: Tu apri l’attività, io vado lì a lavorare anche se ci vado ventiquattr’ore non mi interessa, ma non voglio sentire niente di burocrazia né di altro. E infatti burocraticamente parlando ho fatto tutto io. E niente…oggi c’è una realtà.

UC: Una realtà seria che da lavoro, una bella presenza nel paese.

Io sto cercando di dare una mano a loro perché poi un domani sarà la loro l’attività, dei ragazzi, e non la mia. Gli do dei consigli, gli faccio capire cosa vuol dire essere imprenditori. Sono soddisfatto ma…secondo il mio punto di vista dovrebbero crescere ancora di più, imprenditorialmente parlando. Io avevo anche idee di fare…ma ho deciso di non fare più niente, sono in pensione! (ride)

UC: Torniamo a quella fase. Nel 2001 ti mancavano pochi anni per la pensione però non volevi.

No, non mi piaceva non far niente perché io non sapevo ancora dell’attività e come si sarebbe evoluta. Con il senno di poi oggi forse l’avrei fatto (di andarmene), però prima non sapendo come andava a finire… perché tu vedi come sta cambiando il mondo oggi, sta cambiando così velocemente che non riesci a metterti al passo di tutte le cose, quindi non sapendo come era ho deciso di non andarmene via.

Infatti molti capi reparto anche mi dicevano: Hai la tua attività, aiuti i tuoi figli. Io ho detto : L’attività è dei miei figli, il mio lavoro è qua. Ho fatto trenta e faccio trentuno, mica vado in pensione da prima, e così ho fatto. A Ottana siamo stati cinque quelli che sono rimasti della vecchia generazione sino alla fine. Cinque eroi. Siamo andati in pensione tutti con la legge Fornero. In cinque che eravamo quelli degli inizi, della vecchia generazione.

Io sono andato in pensione nel 2017, però diciamo che dal 2012 al 2017 per me era subentrata la Fornero. A me mancavano sei settimane per andarmene con la legge Dini e infatti politicamente parlando io ero incazzato sempre con la Fornero per un anno, però poi ho capito chi ce l’ha messa la Fornero lì, la domanda da fare… Il centro-destra, e non il centro-sinistra. Non come dicono loro…perché se Berlusconi, Salvini e Meloni avessero fatto il loro dovere quando erano al governo senza dare le dimissioni perché non sapevano più fare l’ultima finanziaria, probabilmente la Fornero non sarebbe subentrata e io me ne sarei andato nel 2012.

UC: Arriviamo a questo ragionamento politico. Però prima finiamo…questi ultimi anni come li hai fatti? Con che spirito?

Non belli. Devo essere sincero, non belli. Non belli neanche con i colleghi di lavoro perché è subentrata una paura…perché ormai Ottana stava scivolando via, non c’era più niente e quindi ognuno cercava di aggrapparsi al proprio posto di lavoro, ma proprio a denti stretti e non pensava alla collaborazione dei colleghi. Questo un po’ mi è dispiaciuto infatti io l’ho detto a loro, ai miei colleghi di lavoro più giovani, erano subentrati a molti di noi, erano arrivati molti anni dopo di me: Voi qui ci dovete fare una vita –  detto -, io fra un po’ me ne vado, però lavorare così è meglio non venirci neanche, perché non si lavora con serenità – questo quello che ho detto a loro – perché tu non puoi stare a guardare per cosa poi? per niente. Questo mi è dispiaciuto un po’, invece prima non c’era, c’era uno spirito lavorativo diverso, c’era più…collaborazione. Forse dipende dal fatto che prima c’era gente in fabbrica e poi non più, infatti il sindacato ha perso molto peso politico. Perché tutte le fabbriche hanno smesso…

UC: Racconta l’esperienza sindacale e politica. Intanto tu nasce in una famiglia probabilmente democristiana, o no?

Sì, io ero l’unico ribelle, io e mia sorella che adesso è a Pavia.

UC: Tue sorelle cosa fanno?

Una è già nonna, ha figli sposati, abita a Pavia. Le altre due sono ancora a casa, una lavorava a Sassari, è andata in pensione quest’anno, è più grande di me lavorava all’università e l’altra è sempre stata a casa anche per accudire mia madre e così via.

UC: In famiglia eri tu il ribelle?

Io sono nato come sardista, mi è piaciuto subito Mario Melis. Devo essere sincero, sono rimasto con lui. Una volta morto, non ho riconosciuto più il Psd’Az come partito.

Con Tonino Sanna Croànu, Salvatorangelo Manca…guarda che qui a Sedilo c’erano duecentocinquanta sardisti, non sono pochi in un paese come Sedilo. Poi quando ho visto che quello tirava per una cosa quello tirava per l’altro, e si è visto come proseguono anche adesso, io non mi sono più riconosciuto in quella cosa lì.

UC: Invece in fabbrica, come l’hai vissuta l’esperienza sindacale e politica, quando hai cominciato a guardarti attorno? Lì c’era sindacalizzazione e politicizzazione.

Molto più che  politicizzazione, sindacalizzazione. Tra sindacati e politica il sindacato si faceva a livello politico non sindacale, e poi sapendo le cose come stanno adesso dal 2000 in poi…tutti gli scioperi erano organizzati dall’azienda e non dai sindacati. Questa è una mia cosa personale che la dico così. E sfido molti a dire il contrario. Ricordo gli ultimi anni che ero in portineria, gli scioperi si facevano lì, c’erano tutti i dirigenti dell’Equipolymers e io con una battuta dissi a uno di loro: Ma potevate organizzarla meglio questa manifestazione. Ci sono poche persone. E lui mi ha risposto: Già va bene così. Lì m’ha dato una prova ulteriore di quello che pensavo io, perché così c’era un fine.

UC: Avevano interesse i sindacalisti, a fare gli scioperi che facevano comodo all’azienda?

Certo, perché l’azienda dopo chiedeva soldi. A Roma. Sai quante volte ha cambiato il nome l’azienda? Ogni volta che cambi il nome ci sono valanghe…di miliardi di lire e poi di euro.

UC: A che sindacato eri iscritto tu, Pinuccio?

Io ero iscritto alla Cgil inizialmente, ero sempre con la Cgil fino al ‘97, quando hanno chiuso. Ma quando ho visto certe cose come ti sto dicendo io, anzi che ti dirò dopo, ho detto non si può fare così. Mi ricordo una riunione fatta quando stava chiudendo Fiocco, hanno detto tutti e tre i sindacati: Se c’è marito e moglie che lavorano uno va a casa e l’altro rimane. Chi è monoreddito resterà qui a lavorare.  Perché c’era fabbisogno di personale in centrale e dovevano distribuirli tra infermeria, i vigili, il parco serbatoi e la portineria e in più la centrale. Dovevano fare questo lavoro qua. Indovina chi ci è andato? Gente che aveva la moglie lavorando. Chi era monoreddito è rimasto fuori. Tipo me. Però ce n’erano centinaia appresso a me, per dirtene una. Mi ricordo che una volta quando eravamo sempre lì, stavamo facendo le pulizie perché i macchinari erano già fermi, stavamo facendo una riunione fra di noi e stavamo parlando del più e del meno ed è arrivato uno delle Rsu: Cosa state facendo? Non si può parlare così. È  andato direttamente dal capo reparto a dirgli che stavamo facendo una riunione. Ma… invece di rimanere lì e aiutare noi operai a darci qualche idea per quello che volevamo fare, quello che si poteva fare, tu te ne vai e racconti tutto.

UC: Stai parlando dell’epoca in cui anche i rapporti di lavoro erano sfilacciati, c’era diffidenza, la gente pensava a sé, egoisticamente, dicevi, nello stesso periodo ci sono questi aspetti del sindacato diciamo un po’ degenerato, dici tu. Però tu eri in Cgil da quando sei entrato in fabbrica nel 1977 consapevolmente credo o no?

Sì certo, prima non era così. Fino a che non ho toccato con mano quello che mi è capitato.

UC: Però fino ad allora ci sei rimasto con consapevolezza.

Ti voglio chiedere, la vita politica in fabbrica, a parte quella che hai fatto a Sedilo…

Politicamente in fabbrica si parlava molto di politica, certo, con i colleghi. Io ero sempre nel discorso dei sardisti, si era formato anche il sindacato del Psd’Az, aveva un segretario regionale non mi ricordo come si chiamava… C’era Pinuccio Pinna che era mio amico, come segretario territoriale. Di sindacato e di politica se ne parlava molto, non poco, se ne parlava sempre.

UC: Nel rievocare tutta la tua esperienza ragiona su questo elemento qua, Pinuccio: in una prima fase eravate  invidiati dall’esterno, eravate proprio una categoria di privilegiati, anzitutto con salario sicuro, posto fisso. Ci sono state fasi nelle quali avete avuto una forte solidarietà, ogni cosa che facevate voi se muovevate un dito scattava tutto il territorio. C’era stata la questione della casa, dei trasporti. Poi la gente ha cominciato a diffidare di voi, a parte il mondo agro pastorale che si è sempre un po’ contrapposto, vi consideravano anche pigri, sono stati esagerati i dati sull’assenteismo, anche se in una fase mi dicono era effettivamente alto, poi è calato. Come lo vedi tu questo aspetto del rapporto col mondo esterno, che cosa è successo nel corso degli anni? Perché ora dall’opinione pubblica la fabbrica è considerata un disastro da tutti i punti di vista, che sarebbe stato meglio non farla nascere, che non ha prodotto nulla, che è stata assistita, che ha prodotto disastri ambientali e anche antropologici, cioè ha rovinato la società sarda.

Io penso che col senno di poi si può parlare di tante cose. Era giusto forse che non nascesse neanche, che se avessero fatto quello che i politici negli anni ’50 avevano promesso di fare, quella diga lì a Benetutti che avrebbe dovuto irrigare tutta la piana sino qua a Sedilo e Ottana e che non si è mai fatta, doveva diventare – la piana di Benetutti, Bultei, Anela, Bono – una seconda pianura padana. Doveva essere così, c’era un progetto.

Col senno di poi si parla bene. Come di questa pandemia. Però io dico…non mi sono mai sentito un privilegiato perché io ho fatto quarant’anni di turni, quindi la mia vita era mezzo scombussolata perché due notti non dormivi, due giorni ti dovevi alzare presto, due giorni dovevi andare a letto tardi, non avevo il senso dell’orario.

I pastori oggi fanno un’ora di lavoro al giorno perché vanno, mungono e se hanno la mungitrice figurati, poi ritornano e sono al bar. Io non sto parlando male dei pastori, i miei fratelli sono pastori, gliele dico anche a loro queste cose perché sono cose fanno male anche a loro, e non mi piace dirle perché dovrebbero saperlo. Però ognuno è libero di fare quello che vuole, c’è libertà per tutti. Però col senno di poi avrei detto che era meglio che non nascesse. Questa fabbrica era nata per nascere in Calabria, hanno rifiutato quel progetto e allora lo hanno portato qui, hanno fatto la famosa cattedrale nel deserto.

Comunque Ottana nel bene e nel male… nel bene economicamente il centro Sardegna è rinato, socialmente anche, perché qui c’era la piaga dei sequestri. Ottana è nata per questo.

UC: La Commissione Medici era passata anche a Sedilo, un giorno la dovremo raccontare, con Gianni. Ci sarà qualcosa negli archivi comunali? Era stata una seduta di una mattinata, c’ero anche io, ragazzino.

…Però quello che poi ambientalmente abbia fatto dei danni sono d’accordo.

UC: Raccontaci. Cosa hai visto tu dal punto di vista ambientale? Di cosa ti accorgevi essendo stati anche in reparti pericolosi? E le cose le dicevate

L’hanno visto tutti, non l’ho visto solo io. Quando a Ottana tu hai due ciminiere che vanno a gasolio e che ti tirano fuori ventiquattr’ore su ventiquattro per trecentosessantacinque giorni all’anno per anni e anni, già lì c’è l’inquinamento. Non sono stati fatti i filtri particolari per poter abbattere certe polveri, ecco questo poteva essere fatto. Poi ci sono stati danni ambientali causati sempre per negligenza o per non aver investito qualche soldo per riparare qualche muretto, la dico così, ecco questo sì. Perché le ultime due volte che ci sono stati danni ambientali– le pecore nere e l’inquinamento del fiume –  erano tutti e due evitabili, tutti e due, non poteva succedere quello. È negligenza per non avere voluto investire.

UC: Quali erano lì le cause?

La prima che si era rotto il filtro ed era in programma di cambiarlo già da un anno prima e non è stato mai cambiato. E il secondo che un silos pieno di urea – che è una materia basica però quando è tanta, c’erano 80 metri cubi di urea in un silos –  si è inclinato, quindi ha perso il suo prodotto e il bacino di contenimento che doveva contenerlo era tutto andato a male. L’urea è uscita, è andata nella fogna…questi sono dati, basta chiedere alla Forestale di Bolotana.

Insomma una fogna chimica del laboratorio era smessa da anni quindi era tutto intasato, e quando l’urea è arrivata ai due pozzetti – quello meteorico e quello della chimica – quella sostanza è andata direttamente al depuratore, e dal depuratore  arriva nei vasconi che scaricano nel Tirso. Però però lì c’erano 80 metri cubi di urea, ammazza chiunque, figurati i pesci.

Io lavoravo al depuratore però non ci siamo accorti di niente, perché quando c’è qualcosa telefonano al depuratore, dicono: sta arrivando qualcosa di basico, ma poca roba non ti preoccupa. Però deve arrivare nella fogna chimica, ma lì non è arrivato niente perché poi si prendono i campioni e te ne accorgi. Io il campione l’avevo preso, ero montato alle sei e un quarto e all’entrata si prendono i campioni e così in uscita, tutti i giorni tre volte al giorno, poi una volta la settimana viene l’Arpas per controllare se tutto va bene. Dopodiché io non mi sono accorto di niente e c’era questa cosa qui. Poi l’abbiamo scoperto quando c’è stata una denuncia, però in centrale non hanno denunciato niente.

UC: Invece l’amianto, come la vedi la questione, la consapevolezza che è arrivata tardi per tutti, a cominciare dalla legge?

La legge c’era. Se parliamo dell’amianto dobbiamo partire dal 1926, si sapeva che era cancerogeno dal 1926. In Italia è stata fatta la più grande fabbrica d’Europa a Casale Monferrato, fatta dagli svizzeri, e ha fatto il danno che ha fatto, sono morte più di duemila persone in quel paese. Però siccome era un materiale edile che costava poco e la gente ne beneficiava…Ci sono state due realtà in Sardegna, una era la Sardit nella zona industriale di Oristano, l’altra era a Marrubiu. Dal 1976 c’era una persona, Giampaolo Lilliu della Cgil che aveva scombussolato tutto, era andato a Roma, a Cagliari, ha interessato mezza politica. Io sono andato a una  messa per i morti d’amianto e nel convegno che è seguito hanno mostrato i filmati.

UC: E a Ottana?

Ottana sapeva. Nel 1998 c’era una persona che si chiama Renzo Puggioni che ha sollevato questo problema dell’amianto a Ottana, lui l’aveva studiato a fondo perché a Pisticci che era la fotocopia dello stabilimento di Ottana avevano riconosciuto l’amianto (come causa di malattie e di morte). Qua a Ottana non lo volevano riconoscere, però questa persona tutti l’hanno preso per pazzo. Dopo che però aveva raccolto tanta documentazione si sono tutti ricreduti, e così è nata questa associazione, AIEA.

Io mi sono impegnato, la prima assemblea per l’amianto qui a Sedilo l’ho fatta io, sono venute più di cinquanta persone. Ho fatto la richiesta, ho compilato io a tutti quanti quella scheda e l’ho spedita io direttamente alla sede dove devono fare le analisi.

Quando noi lavoravamo a Ottana le tute le portavamo a casa e mia moglie prima di metterla in lavatrice la scuoteva la tuta e poi la metteva in lavatrice, non c’erano le lavatrici dello stabilimento. Questo è forse un neo che c’è stato nella sicurezza. Quando sono andato a Porto Torres la lavatrice in fabbrica c’era, la tuta non usciva dallo stabilimento.

UC: Questo accadeva in quali reparti?

Nelle officine centrali si facevano le guarnizioni di amianto. Io per esempio al Fiocco tutte le tubazioni dove c’erano i forni a 300 gradi per fare la coibentazione per tenere in caldo le filiere c’erano i cuscini di amianto. I meccanici molto e anche gli elettricisti, dove andavano a saldare nelle piattaforme mettevano i grigliati per non cadere. E quelli erano tutti d’amianto. Noi per tappare i fori delle filiere dove usciva il filo, la plastica, se la plastica non andava bene voleva dire che quel foro non era pulito bene, allora dovevi prendere la punta della mina della matita dovevi tapparlo e per tapparlo (perché scendeva a trecento gradi) avevamo guanti di amianto. I  vigili hanno le tute di Amianto, i vigili del fuoco, le tute sono ignifughe e c’è l’amianto. L’amianto c’è dappertutto, nel cemento, perché pensi che abbiano chiuso tutti cementifici in Sardegna e lo stiamo portando il cemento dalla Grecia?

Questo è quello che mi dispiace di Ottana. Io non sputo sopra il piatto in cui ho mangiato, però bisogna dire anche la verità. Come sono e come erano le cose.