Innanzitutto ringrazio Umberto Cocco e Francesca Atzas che mi hanno coinvolto in questa iniziativa e mi hanno fatto leggere in anticipo le loro interviste. Sono testimonianze molto interessanti e ben articolate, perché prima ancora della fabbrica contengono storie di vita, storie familiari, storie di paese, e consentono anche di avere un quadro delle molteplici dinamiche del mercato del lavoro nella Sardegna centrale soprattutto negli anni ’60. Per esempio c’è chi, come Tore Podda, ha lavorato anche in Germania, alla Volkswagen: un esempio per dire che questi sardi si spostavano anche oltre il triangolo industriale che fu a lungo il principale polo di attrazione.
Queste interviste, come ha detto giustamente Francesca Atzas, non sono focalizzate solo sulla fabbrica. E questo indubbiamente le arricchisce. Mi sembra che nel condurre la vostra ricerca voi abbiate seguito in modo puntuale le indicazioni di uno storico inglese, Paul Thompson, che è un esperto di storia orale: lui scrive infatti che, in generale, sarebbe meglio impostare l’intervista come una storia di vita, e approfondire, allargare poi il discorso sino al punto che ci interessa. E voi avete seguito proprio questa strada e siete stati, secondo me, molto bravi.
Una studiosa francese, Florence Descamps ha osservato che il racconto di vita è una forma speciale di conversazione attraverso la quale un ricercatore chiede ad una persona di raccontargli la sua esperienza vissuta e questo scambio fa nascere un patto non scritto: “Voi mi raccontate la vostra vita nella maniera più sincera possibile e io, ascoltandovi, vi aiuto a ricostruirla”. Ed ha ragione Manlio Calegari quando sostiene, in proposito, che “fin dalla sua formazione la fonte orale risente della figura dell’intervistatore, l’osservatore che modifica sempre quanto è da lui osservato”.
Il mio amico Giovanni Contini, nel volume Verba manent, spiega che “l’intervistatore è insieme un archivista (perché con le interviste sta contribuendo a costruire delle nuove fonti) ed anche uno storico, dato che raccoglie e fissa la conversazione, ma contemporaneamente la suscita, la sollecita, la ambienta”. E aggiunge che la sua interpretazione dell’incontro, le sue note su quanto è emerso dalla conversazione, costituiscono un’appendice formidabile per il futuro fruitore della fonte storica che si è prodotta attraverso l’intervista.
Questo lo sottolineo come suggerimento, anche se è una cosa che io, spesso, non ho fatto con la necessaria attenzione. Nel corso delle mie ricerche ho svolto tante interviste, però non sempre ho curato bene questa pratica che invece è molto importante: cioè è utile e necessario segnarsi alla fine dell’intervista le impressioni a caldo, fissarle con degli appunti per riuscire poi, una volta che l’intervista diventerà una fonte fruibile anche da altri ricercatori, ad offrire alcune informazioni essenziali: una sorta di chiave di lettura e di inquadramento per chi la ascolterà in futuro; possono essere anche solo dieci righe o una o più pagine di impressioni e notazioni. Sono elementi che è comunque utile inserire ed affiancare alle trascrizioni, insieme ovviamente alla data e al luogo dove si è svolta l’intervista.
Un’altra cosa che in passato io non ho pensato di fare e che invece voi state giustamente attuando è la richiesta di una formale liberatoria ai testimoni che avete incontrato. In proposito c’è ormai una procedura formale, una prassi che va rispettata, ma che consiglierei di svolgere, quanto più è possibile, con garbo e cautela. Tempo fa è venuto a casa mia, a intervistarmi, un ricercatore canadese che studia le miniere, e mi ha colpito il fatto che, ancora di sedersi, mi abbia dato un foglio da firmare per questa liberatoria. Io ho firmato in bianco perché sapevo che ormai la prassi è questa, ma devo dire che sono rimasto un po’ infastidito, perché non è bello presentarsi così, ad un interlocutore che ancora non conosci, con un foglio da firmare. Consiglierei quindi di chiedere queste liberatorie alla fine dell’intervista, quando si è avuto modo di stabilire un rapporto umano e interattivo con l’interlocutore, in una fase in cui, a registratore spento, si passa al colloquio informale: è quello per me il momento più favorevole anche per chiedere a chi ci sta davanti se per caso conserva e possiede fotografie, documenti, diari ed è disponibile a socializzarli.
Sulle modalità di trascrizione, come sapete, ci sono diverse teorie e diverse prassi. C’è per esempio un antropologo sardo che vive in Toscana, Pietro Clemente, il quale ritiene che l’intervista vada trascritta alla lettera: secondo lui non si deve modificare nulla, il testo finale deve rispecchiare fedelmente il parlato. Dopo aver letto le interviste che voi, Francesca e Umberto, avete raccolto mi sembra che l’abbiate quasi sempre fatto. Però c’è un problema causato da questo sistema di trascrizione, che si evidenzia quando poi chi è stato intervistato vede le sue parole trasferite in un testo scritto. Spesso è inevitabile che succeda che uno pensi: “Ma io ho parlato così male? Ho fatto tutte queste ripetizioni?”. Perciò se dal parlato, dall’audio, si passa allo scritto secondo me, questa è la mia idea, si deve trovare una mediazione, cioè si deve trascrivere in modo da agevolare chi leggerà il testo, perché il parlato non è un testo scritto. Anche Contini consiglia “una non eccessiva letteralità” nel lavoro di trascrizione, ricordando che questa pratica può essere svolta come “un’interpretazione creativa”, con l’obiettivo di arrivare ad un testo che “deve essere leggibile”. E comunque questo è un problema con cui sicuramente vi dovrete confrontare.
La storia che voi state analizzando e di cui si sta discutendo stasera, è secondo me per certi versi peculiare per il contesto sociale in cui si è svolta, ma per altri versi ha problematiche simili a quelle di altri luoghi e di altre comunità che hanno vissuto l’esperienza delle grandi fabbriche petrolchimiche.
Su Porto Marghera, ad esempio, è stato scritto un libro per me molto significativo che è intitolato Perdonare Marghera. In questo volume (che nella seconda parte riporta le interviste frutto di una ricerca sul campo) l’autrice, Laura Cerasi, sostiene che a Marghera sulla fabbrica c’è una memoria divisa, cioè convivono due memorie molto diverse, quasi opposte, fra gli abitanti di Marghera e i lavoratori del petrolchimico; questo perché i lavoratori della fabbrica hanno un rapporto con quella che è stata la loro esperienza di vita che è molto diverso dall’effetto che la fabbrica ha prodotto sugli abitanti, soprattutto in termini di pesante inquinamento.
Un’altra approfondita ricerca basata sulle fonti orali ha riguardato il caso di Priolo. Sono stato una volta in quella fascia costiera del Siracusano dove l’impatto dell’industria sul paese e sull’ambiente è veramente impressionante: le ciminiere te le trovi quasi di fronte, incombenti, mentre stai prendendo un cappuccino al bar!
Qualche anno fa il Comune di Priolo si è fatto promotore della realizzazione di un Archivio della memoria orale. E gli storici Salvo Adorno e Fabio Salerno hanno curato la pubblicazione di un’ottantina di interviste rivolte a un ventaglio molto ampio di testimoni (casalinghe, pensionati, commercianti, artigiani, professionisti, giovani e operai), scomponendole nella costruzione del libro per argomenti (il territorio,le usanze, l’ambiente, l’industria, l’identità). Questo studio ha individuato essenzialmente tre prospettive diverse: gli anziani priolesi guardano in prevalenza con nostalgia ad un passato perduto, descrivono com’erano un tempo le campagne della zona che era ricca di frutteti; i forestieri di un tempo, diventati ormai residenti, sono grati al paese che li ha ospitati e gli ha dato lavoro; i giovani, invece, guardano con inquietudine, sospetto e anche antipatia un territorio fortemente violato sul piano ambientale.
E’ quanto, credo, avvenga anche qui. Abbiamo sentito, all’inizio del nostro incontro, il passaggio di un’intervista, nel quale un vostro interlocutore, mi sembra Dorino Mascia, ha osservato che i giovani hanno un’idea della fabbrica completamente diversa rispetto agli anziani e soprattutto a chi ci ha lavorato. A conferma di ciò, riferisco anche il punto di vista di un mio giovane amico, Stefano Tedde, un archivista molto bravo che lavora e collabora con vari comuni della Sardegna; un giorno lui, che sa quanto le vicende dell’industrializzazione mi abbiano sempre interessato, mi manda un messaggio dal paese di Lei, dove stava catalogando l’archivio comunale e mi scrive: “Da qui vedo le ciminiere della fabbrica di Ottana”. Io gli chiedo: “Che impressione ti danno?”. E lui mi risponde secco e deciso: “Secondo me andrebbero abbattute!”. Un’idea questa, che poi mi sembra la stessa che esprime un altro dei vostri intervistati, se non ricordo male l’ottanese Giovanni Denti, il quale ad un certo punto dice: “Non le vorrei più vedere quelle ciminiere!”. Un’idea con la quale non so se tutti qui siete e siamo d’accordo.
Nell’ultimo capitolo del suo recente libro, intitolato E poi arrivò l’industria, lo studioso Andrea Francesco Zedda osserva, accennando al paesaggio industriale come scomoda eredità identitaria, che l’industria che un tempo ha costituito oggetto di vanto, tanto da essere rappresentata nelle cartoline sul paese, ora è vissuta dalla comunità locale quasi con vergogna. Questo libro è basato su 25 interviste, rigorosamente anonime come vogliono gli antropologi, interviste fatte tutte qui a Ottana e offre un interessante spaccato dei diversi punti di vista che il fenomeno industriale ha prodotto tra gli abitanti del paese.
Mi ha colpito che il giovane antropologo abbia liquidato in due parole la tesi di Michelangelo Pira secondo cui sarebbe stato difficile per la realtà sarda e anche la realtà locale “digerire” queste forti novità. Zedda sostiene invece che Ottana ha digerito – sto usando un verbo per farmi capire – ha digerito bene quello che è accaduto. Secondo me lui è troppo ottimista quando afferma che, lo cito testualmente, “la popolazione di Ottana ha saputo introdurre con coerenza storica gli avvenimenti dell’industrializzazione dentro un più ampio percorso della storia locale”.
Ho qualche dubbio che ciò sia vero, soprattutto perché, conoscendo bene la realtà di Porto Torres, so che la città turritana, nonostante le sue dimensioni certamente maggiori, non ha ancora digerito bene il fallimento della Sir; anzi mi sembra che Porto Torres sia ancora sotto choc per la sua storia industriale, che pure ha avuto una durata più lunga di quella di Ottana, perché lì il petrolchimico sorse nei primi anni Sessanta.
Quanto alle ciminiere devo dirvi, sinceramente, che mi hanno sempre affascinato, dato che da giovane sono stato un convinto operaista (uso un termine di cui forse oggi non si capisce neanche più il significato); intendo dire che ho vissuto l’esperienza delle nuove fabbriche come una grande avventura, perché in Sardegna per noi la formazione della classe operaia costituiva una novità sociale positiva.
E, a questo proposito, permettetemi di tornare indietro nel tempo, se non sbaglio al 1970, per ricordare una riunione dei gruppi della sinistra extraparlamentare sarda che si svolse nella sede del Circolo culturale di Orgosolo. Ricordo ancora bene la discussione molto aspra che vide contrapposti noi giovani, appoggiati anche da Bore Muravera (che ho visto citato in alcune interviste) e, dall’altra parte, Eliseo Spiga e Antonello Satta, fondatori del circolo Città e campagna, sulla cui linea di forte opposizione all’insediamento industriale era anche un altro esponente orgolese, Giovanni Moro. Mentre loro erano fortemente contrari all’idea di creare una grande industria ad Ottana, la maggioranza di noi giovani – come ha ricordato Eliseo Spiga in un suo libro di memorie – aveva l’idea che le fabbriche fossero il progresso e che avrebbero portato un’importante novità nella realtà della Sardegna, avrebbero fatto crescere questa nuova classe operaia e sarebbero state quindi un elemento di innovazione sociale.
Intorno al progetto di Ottana, a parte la netta opposizione di Città e campagna, ci fu comunque un sostanziale consenso; lo sottolinei mi sembra anche tu, Umberto, in alcuni passaggi delle tue domande: direi che c’era un consenso generalizzato. L’idea della fabbrica nacque all’interno della Democrazia Cristiana, era stata pensata e auspicata prima ancora che dalla Commissione parlamentare d’inchiesta, dai democristiani nuoresi nel 1967, i quali sostenevano l’esigenza di bilanciare con un nuovo massiccio investimento nella Sardegna centrale i poli di sviluppo che, durante gli anni Sessanta, erano sorti tutti nelle coste (a Porto Torres, Assemini, Sarroch e Arbatax).
Sbaglia peraltro Giuseppe Lupo (il quale, non senza qualche forzatura, ha inserito il caso di Ottana nel suo libro Le fabbriche che costruirono l’Italia) quando sostiene che il problema del banditismo non ebbe alcun peso, perché l’idea di spingere le Partecipazioni Statali e in particolare l’Eni ad impegnarsi in prima persona fu accolta dal governo e in particolare da Paolo Emilio Taviani, nella sua veste prima di ministro dell’Interno e poi di ministro dell’Industria, proprio perché il Nuorese era identificato allora con la società del malessere, per citare il titolo del famoso libro di Giuseppe Fiori.
Sulle scelte compiute in quel periodo noi abbiamo voluto ascoltare l’avvocato Mario Lai che, come sapete, è stato sindaco di Ottana durante gli anni Settanta. Dico noi, perché questa intervista l’ho svolta qualche anno fa insieme a Gianmario Leoni, un giovane nuorese che ora fa l’insegnante ed è figlio di un dipendente di Ottana, il padre ha lavorato come impiegato nello stabilimento. Gianmario aveva fatto un progetto di ricerca, pensava di continuare gli studi dopo l’Università, voleva diventare uno storico; poi invece ha messo su famiglia e ha fatto l’insegnante, ed è diventato un bravo professore di liceo a Firenze.
Insieme abbiamo fatto questa intervista all’avvocato Lai per chiedergli come si arrivò a quelle scelte e quale bilancio di dell’esperienza industriale si sente di fare oggi. Mario Lai ha espresso un giudizio negativo, ha fatto un bilancio critico della fabbrica, soprattutto dal punto di vista degli effetti ambientali, e ci ha detto che se oggi gli si presentasse una situazione simile non darebbe l’autorizzazione per il suo insediamento.
Chi in quegli anni rifiutò e si oppose alla proposta di realizzare un impianto di fibre nella piana del Sologo fu il Comune di Lula, la cui amministrazione, una delle poche giunte di sinistra esistenti allora nel Nuorese, disse no alla proposta di dislocare nel suo territorio una parte dell’iniziale progetto della Siron. Secondo Mario Lai, non furono le motivazioni ambientali ad orientare quella scelta, ma la mentalità “estremista e semi-rivoluzionaria” (cito le sue parole) di chi guidava quella giunta comunale; e la decisione di Rovelli di scorporare l’intervento che originariamente pensava di concentrare a Ottana avvenne solo su pressione della classe politica locale.
Un altro passaggio fra le tante cose interessanti dell’intervista a Mario Lai che voglio riferirvi riguarda quanto gli anticipò un dirigente dell’Eni, l’ingegnere Agnesi, quando la fabbrica stava appena partendo: “Questa industria non durerà più di vent’anni”. Quindi l’Eni aveva già dall’inizio l’idea che la nuova fabbrica, che era stata realizzata su imput del governo, non avrebbe potuto avere una vita lunga. Però allora agli occhi della gente “sembrava il paradiso” poter entrare in fabbrica:
“Il pastore – ha ricordato l’avvocato Lai – vendeva le pecore per entrare lì! Cose inaudite, perché voi sapete l’amore che ha il pastore per le sue pecore: gli muore una pecora e quasi piange, il pastore! Eppure le vendevano. Io sono testimone di uno che ha venduto il suo gregge per voler entrare e l’ho fatto entrare io in fabbrica e se n’è uscito che non ragionava più, che non connetteva più, che piangeva; e mi diceva: – Che errore che ho fatto!”.
Nel mio libro La parabola della petrolchimica, che ho costruito venti anni fa con 16 interviste a personaggi che hanno seguito e gestito in vario modo la storia della grande industria in Sardegna, c’è anche l’intervista all’ingegner Edgardo Curcio che fu il tecnico a cui l’Eni affidò l’incarico di realizzare in pochi giorni il progetto per Ottana. Allora presidente della Regione perché c’era Giovanni Del Rio, fanfaniano, presidente del Consiglio era Fanfani, che doveva fare i conti con le richieste che provenivano dal Nuorese; perciò Fanfani si rivolse a Cefis, che era alla guida dell’Eni, chiedendogli di far preparare un progetto molto rapidamente perché, poco prima, si era già mosso Rovelli presentando un suo progetto per Ottana: quindi c’era da fare una corsa contro il tempo per riuscire a stopparlo e possibilmente a scalzarlo.
E Rovelli, a sua volta, era stato appoggiato, anzi spinto e pressato, da altre correnti politiche democristiane, in particolare quella dei morotei. Ce lo ha raccontato Pietro Soddu, il quale nella sua intervista ha affermato: “Su Ottana posso dire che Rovelli fu messo da noi alle corde, nel senso che il progetto Ottana lo fece quasi sotto ricatto. Noi – gli dicemmo – possiamo dare il via libera ad altre cose – altre cose come il raddoppio del petrolchimico di Porto Torres, se Lei va nella Sardegna centrale”. Questo è quanto ha riferito Pietro Soddu, confermando dunque il peso che ebbe la politica sulle scelte degli investimenti industriali nel Nuorese.
Se l’avvocato Lai fosse disponibile, la sua intervista potrebbe entrare a far parte della vostra ampia raccolta di testimonianze, perché il vostro lavoro di ricerca potrebbe riguardare non solo i lavoratori e i tecnici dello stabilimento, ma essere esteso anche ad altre persone che hanno avuto un ruolo o che sono anche semplicemente abitanti di questa area vasta che ha costituito il bacino di manodopera della fabbrica.
Un’altra intervista che ho fatto qualche anno fa e che ugualmente, se voi lo riterrete utile, potrebbe convergere nella vostra ricerca, è quella al dottor Giovanni Serra. Lui si era formato come sociologo, venne assunto dall’Eni agli inizi degli anni Settanta e cominciò il suo lavoro qui a Ottana; collaborò quindi anche all’assunzione del personale, poi svolse anche le lezioni di cultura generale nei primi corsi di formazione. Il dottor Serra ha ancora un rapporto d’affetto molto forte con la fabbrica di Ottana dove ha cominciato a lavorare e ricordo che espresse delle critiche anche forti quando insieme andammo a vedere a Macomer il film di Umberto Siotto e Antonio Sanna, intitolato Senza passare dal Via, ritenendo che quel documentario sia stato costruito un po’ a tesi, che cioè non vede, non riesce a mostrare gli elementi positivi che ha prodotto questa realtà industriale.
Ho verificato che nelle vostre interviste avete ascoltato fino ad ora, oltre ad alcuni testimoni di Ottana, lavoratori e lavoratrici di tanti altri paesi: Bolotana, Silanus, Sedilo, Aidomaggiore, Orani, Sarule, Gavoi, Burgos, Olzai, Orotelli, Sorradile, Busachi. Da questo ampio ventaglio manca però, ancora, la città di Nuoro. Io non so quale sia la quota di nuoresi che hanno lavorato a Ottana, forse una quota limitata, ma credo che sarebbe comunque importante verificare se e quale impatto abbia avuto la fabbrica sul capoluogo di provincia.
Una domanda analoga, riferita in questo caso al petrolchimico di Porto Torres, ce la siamo posti in un convegno che si è svolto da poco a Sassari su iniziativa della Fondazione Segni. In quella sede ho svolto una relazione sull’industria nel territorio e ho provato a interrogarmi anche su quali effetti abbia avuto su Sassari la presenza della SIR, giudicandoli rilevanti: basta pensare che Rovelli acquistò nel 1967 la proprietà dello “La Nuova Sardegna”, acquisendo dalla borghesia locale la proprietà dello storico quotidiano locale; né si può dimenticare che l’Istituto tecnico industriale, la facoltà di Chimica o una struttura come il centro professionale di San Camillo sorsero in funzione e di riflesso alla crescita del petrolchimico.
Umberto Cocco si chiedeva all’inizio di questo incontro se è possibile esprimere un giudizio storico su questa vicenda e su questa realtà. Io credo che una valutazione compiuta dei poli industriali della Sardegna sul lungo periodo vada ancora data e che sia giusto esprimersi con estrema cautela, tanto più perché voi qui siete ancora nella fase di raccolta di memorie e queste sicuramente apriranno ulteriori problemi e prospettive. “Davanti alle fonti orali – ha osservato Sandro Portelli nella prefazione al libro di Andrea Francesco Zedda E poi arrivò l’industria – è sempre bene giudicare poco e ascoltare molto: il tipo di verità delle fonti non corrisponde necessariamente alla verità fattuale degli eventi, ma rinvia ad altri livelli, meno tangibili ma non meno reali”.
Per il dottor Serra non c’è dubbio che il movimento dei lavoratori di Ottana abbia espresso ottimi quadri dirigenti e ha notato che si è trattato in maggioranza di quadri della sinistra, osservando che, sebbene la Dc abbia sempre rivendicato la fabbrica come una sua creatura, alla resa dei conti si è trattato “di una creatura politicamente ingrata”. Un’analisi su cui concorda Giorgio Macciotta, che è stato parlamentare del Pci e prima ancora dirigente sindacale della Cgil e quindi ha conosciuto bene la vostra realtà. Secondo lui, tra i diversi poli industriali sardi, il nucleo operaio più forte e più coeso e anche più colto in Sardegna era proprio quello di Ottana; e questo forse sia perché lo stabilimento fu realizzato negli anni settanta, dopo che era stato approvato lo Statuto dei Lavoratori, sia perché l’Eni scelse di formare la manodopera in altre realtà del continente. Il fatto che molti dipendenti siano andati fuori e abbiano vissuto la realtà delle fabbriche del continente prima di rientrare qui ha contribuito a rendere le vicende sindacali di Ottana molto diverse da quelle vissute dai lavoratori di Porto Torres che nei primi anni ’60 si sono dovuti confrontare con una realtà durissima in cui anche solo pensare di far parte di un sindacato significava poter essere licenziati.
A Ottana la gestione della manodopera da parte dell’Eni, un’azienda a partecipazione statale, ha determinato un diverso modello di relazioni industriali. “All’Eni – dice l’olzaese Gianfranco Mussoni in un passaggio della sua intervista – il padrone tradizionale non è mai esistito”. E questo è un aspetto decisivo che ha teso a sottolineare, in un’intervista che gli feci anni fa, Paolo Vantaggi, un tecnico che ha lavorato alla Snia Viscosa dopo esser stato licenziato dalla Sir a Porto Torres: “Noi – mi ha detto – avevamo un padrone vero, a Ottana invece il padrone era lo Stato!”. A conferma dei rapporti di potere che si vivevano in altri poli industriali basta ricordare che a Porto Torres la prima commissione interna venne costituita solo nel 1967, e solo con la presenza della Cisl, e che alla Snia Viscosa il sindacato più forte è stato a lungo la Cisnal, cioè il sindacato legato al Msi, voluto e promosso dall’azienda, una presenza che solo dopo anni di lotte è stato fortemente ridimensionata.
Invece a Ottana la gestione aziendale era diversa e si configurava effettivamente con una minore pressione sui lavoratori che, per la loro capacità di mobilitazione e di coinvolgimento del territorio, furono indicati a metà degli anni Settanta da studiosi come il sociologo Lelli come la vera e propria avanguardia del movimento popolare in Sardegna.
Una valutazione critica e una contestazione di questo ruolo egemone l’ha invece espressa Salvatore Cubeddu, che è stato un dirigente sindacale della FLM in Sardegna e che da poco ha terminato di scrivere le sue memorie di sindacalista in un ampio lavoro costruito con una ricca documentazione, un testo disponibile anche on line nel sito della Fondazione Sardinia, che lui stesso dirige. L’analisi di Cubeddu riflette le dinamiche interne al movimento sindacale sardo di quegli anni dove fra chimici e metalmeccanici e, soprattutto, tra i metalmeccanici e il gruppo dirigente delle Confederazioni ci furono in quel periodo divergenze e scontri.
Uno dei vostri intervistati, lo ha ricordato Umberto Cocco, ha parlato della fabbrica come di un campus di formazione; mi sono appuntato quanto diceva analogamente, un altro testimone, l’ottanese Salvatore Pintore: secondo lui “la fabbrica è stata una grande università politica”. Un altro dei vostri interlocutori, Tore Podda di Orotelli, ha sottolineato che se è vero questa fabbrica non era adatta al territorio, allo stesso tempo ha avuto il merito di cambiarne in positivo la mentalità. C’è peraltro da considerare che, anche se la fabbrica ha creato tra i lavoratori una unità interna molto forte, può aver contribuito con il passare del tempo (questo emerge da alcune testimonianze) a mettere in discussione certe pratiche comunitarie e una significativa solidarietà che era tipica della cultura agro-pastorale dei paesi dell’interno.
Fra le venti interviste che avete svolto finora c’è anche una significativa quota femminile, considerando che dentro la fabbrica, la presenza delle donne non superava a qualche centinaia di unità lavorative. Mi ha colpito in particolare quanto dice Pasqualina Borrotzu di Orani il cui padre era minatore (vedo che è presente e mi fa piacere). Lei dice che il fatto che Orani avesse una storia mineraria alle spalle, con 250 minatori in produzione, rendeva il suo paese un centro politicamente e sindacalmente più evoluto rispetto agli altri paesi del circondario, tant’è che, secondo quanto lei ricorda, ben il 75 per cento dei componenti del primo consiglio di fabbrica erano oranesi. Questo dato, che forse andrebbe verificato, mi sembra comunque un elemento molto significativo, un dato clamoroso da sottolineare e indagare. Di un’altra delle vostre testimoni, Elisa Mossoni, di Sarule, che era segretaria del capo del personale e che quindi avrà sicuramente conosciuto il dottor Serra, mi sono appuntato questa affermazione, condivisa anche da altri: “Non possiamo negare che questa cattedrale nel deserto ha fatto del bene”.
A proposito di questa fortunata e forse abusata definizione io, che studio le vicende industriali dei cosiddetti “poli di sviluppo” da tanti anni, ho saputo solo da poco che chi ha usato per primo l’espressione “cattedrale nel deserto” non è stato un sociologo, ma è stato nientemeno che don Luigi Sturzo, il fondatore del Partito popolare nel primo dopoguerra: lui era siciliano e, quando furono create le prime raffinerie e i primi petrolchimici in Sicilia (Priolo e Augusta sorsero prima di Porto Torres e di Assemini) fu lui ad inventare questa sorta di metafora che poi i sociologi hanno adottato ed è diventata di uso comune. Un’immagine che peraltro ha anche qualcosa di impreciso e di non rispondente alla realtà, perché ad esempio nel Siracusano, a Priolo non c’era il deserto, c’erano dei bellissimi frutteti. Del resto neanche a Porto Torres c’era il deserto prima dell’arrivo della Sir. Ricordo bene che negli anni Cinquanta nella zona della Marinella, dove poi sorse la zona industriale, esisteva un piccolo lido attrezzato dove anche noi sassaresi andavamo d’estate a fare il bagno.
A Porto Torres ho insegnato negli anni ‘70 alle scuole medie; e con i miei alunni avevamo svolto un’inchiesta e poi avevamo costruito un giornalino, il cui titolo era: “L’industria non deve inquinare”. Quel giornalino, stampato al ciclostile, aveva fatto scandalo a scuola dove c’erano, tra le mie colleghe, anche alcune mogli dei dirigenti della Sir: quello era un periodo in cui non si doveva parlare di inquinamento, “La Nuova Sardegna” non ne parlava, per la Sir era un argomento tabù. Ora in quella zona industriale che ha visto crescere uno degli stabilimenti petrolchimici più vasti d’Europa sono rimaste ancora nel terreno e nelle falde acquifere le tracce di quella rilevante presenza industriale che è durata più di mezzo secolo.
Qualche tempo fa sono stato chiamato da qualche insegnante delle scuole superiori di Porto Torres impegnato con le sue classi in una ricerca sulla storia della città e ho potuto verificare che sembra esserci stato quasi un processo di rimozione del petrolchimico. Anche a Porto Torres, un po’ come credo stia avvenendo ad Ottana, c’è il tentativo di ritrovare le antiche radici del luogo: quindi si rivalutano i resti archeologici, la pesca, il porto, mentre la fabbrica sembra quasi che vada dimenticata, cancellata dalla memoria. Da parte mia, quando sono entrato in queste classi, ho consigliato ai ragazzi, agli studenti, di sentire i loro nonni, di intervistarli sul loro vissuto, perché la vicenda industriale che ha segnato la città è una storia che non deve essere dimenticata; va analizzata criticamente, ma certamente non va dimenticata o riportata e liquidata soltanto con l’equazione fabbrica=inquinamento. Un’equazione riduttiva e semplificatoria che si applica spesso anche al caso di Ottana, come hanno sottolineato alcuni dei vostri interlocutori sostenendo che “l’ambientalismo ha preso la fabbrica come bersaglio” (Salvatore Pintore) e che non sembra giustificato “tutto questo processo che si fa oggi alla fabbrica” (Palmiro Cillara).
Concludo segnalando una breve registrazione che ho fatto a Punta Palai: un forestale che lavora lì e che ci è capitato di incontrare e conoscere durante una camminata ha recitato alcuni versi di una poesia fortemente critica sulla vicenda industriale di Ottana, scritta dal silanese Mario Masala: la poesia comincia parlando del rientro degli emigrati, con la valigia in mano, convinti che la fabbrica avrebbe garantito il lavoro e il progresso e si conclude con la tesi che se invece si fosse coltivata la terra e si fossero allevati bene gli animali non si sarebbero sprecati tanti miliardi. Non saprei datare con precisione l’anno in cui fu composta, ma mi sembra giusto citarla perché sono convinto che anche queste poesie popolari costituiscono una documentazione interessante da studiare e affiancare alla vostra ricerca.