Francesco Tolu è uno dei più conosciuti ex dirigenti sindacali e politici di Ottana, attivo ancora oggi nella denuncia dei danni procurati dall’amianto e nelle rivendicazioni per il riconoscimento dell’esposizione degli operai all’asbesto, fra le frequenti cause di morte. Con identico rigore racconta la vicenda industriale dalle origini a oggi, ricostruisce per i familiari le carriere professionali dei suoi ex compagni di fabbrica – mansioni, reparto, orari di lavoro – allo stesso modo con cui ha ricostruito la storia del padre, emigrato e poi internato in un campo di concentramento, tornando in Germania, consultando le carte dell’Archivio di Stato.
Intervista integrale: 56 min.
Francesco Tolu, nato a Escalaplano il 14 dicembre 1950. Maggiorenne, figlio di Orlando e di Giuseppina. Mio padre era un minatore con la terza elementare, mia madre analfabeta. Ero il secondo di 5 figli; mia sorella, nata due anni prima di me, poi una sorella dopo di me e due fratelli. Vivevo una realtà, quella dei ragazzi del ‘50, dove praticamente ci si conosceva tutti all’interno di paese che era intorno ai 3000 abitanti allora. Le uniche possibilità di lavoro in quella fase lì erano… io ricordo nel 56… che negli anni ‘50 si stava costruendo la diga del Flumendosa, e quindi gran parte degli occupati erano lì; un’altra parte, parlo di alcune decine, lavoravano in miniera a Silius. Per il resto agricoltura, pastorizia, il poco che poteva offrire quella realtà lì. Dopodiché, finite le scuole elementari e medie, a 15 anni rimango orfano: mio padre aveva avuto un grande incidente durante la costruzione della diga. Praticamente era esplosa una mina, lo aveva fracassato… lo hanno ricoverato a Iglesias, io avevo 6 anni, andai a trovarlo e mi spaventai, era fasciato… forse un occhio avevo visto quella volta… poi però, dopo un po’, si riprese e nonostante l’invalidità riprese anche a lavorare, riprese con lavori saltuari in paese, quelli che poteva fare nei suoi terreni: tant’è vero che realizzò un progetto di un muro perimetrale di un terreno e io facevo il manovale, a 10 anni… non è che mi piacesse molto, però ci andavo… un muro in pietra, sì, a secco. Quindi andavo e seguivo i lavori che faceva lui.
Umberto Cocco: Lui, minatore, perché nella diga in quel periodo… Mobilitarono anche i minatori per minare, per esempio?
Esatto, sì… per l’esplosivo in particolare. Dopodiché, eravamo nei primi anni ‘60, non c’erano alternative: la pastorizia non rendeva, l’agricoltura neanche, e allora si intraprese la strada dell’emigrazione, andò a lavorare al traforo del Monte Bianco, stessa attività come minatore.
Quindi tuo babbo va lì, e tu sei dove a quel punto?
Io ero alle medie, avevo fatto l’avviamento ma l’avviamento venne soppresso e passai dalla II avviamento alla II media, e quindi 2 anni alle medie. Il terzo anno delle medie lui tenta di nuovo la strada dell’emigrazione, e praticamente era andato a finire in Germania. Andò in Germania, stava lavorando e una sera, mentre rientrava da lavoro verso casa, venne travolto da un treno. Sai, io avevo vissuto quella esperienza in modo veramente drammatico, perché dopo la comunicazione del decesso e dell’incidente, passarono 9 giorni prima che la salma arrivasse in paese.
Quindi io ero il più grande dei maschi a casa e me ne occupavo io con mio zio, fratello di babbo. Mi ricordo che andammo all’aeroporto a prendere la salma con un altro cugino di babbo che aveva il furgone; caricammo la salma lì e la portammo in paese.
Poi, sai, io finivo la terza media e quindi alla fine qualcosa dovevo fare: e l’unica cosa era… ci informarono di quest’istituto che poteva offrire per gli orfani dei lavoratori la possibilità di studiare e quindi venni qui, a Nuoro, che c’era la sede dell’Enaoli, con mamma e affrontammo questa cosa qui… Cosa vuoi fare, cosa ti piacerebbe fare eccetera… e io, siccome avevo una passione innata per la meccanica, dissi: «Io vorrei occuparmi di meccanica». «Di meccanica per fare cosa?». «Anche motori», dissi e quindi scelsi il corso come motorista meccanico. Quindi alcuni mesi dopo venni assunto all’Enaoli di Iglesias, mi offrirono il posto lì ed era un bel collegio attrezzato, aveva aule molto ampie, una dotazione di attrezzature eccezionali. Probabilmente era il primo in Italia come istituto professionale, pensa che c’era un reparto di macchine e utensili dove potevano operare 20 alunni contemporaneamente, con ….frattoni, frese, rettifiche eccetera… Sale di aggiustaggio, una sala motori dotatissima dove praticamente smontavamo e rimontavamo, questo era il lavoro da fare. C’erano dei professori molto bravi, venivano dall’industriale di Cagliari anche.
Quindi quella era stata un’esperienza molto interessante, molto bella, dove si era formato un gruppo di compagni di scuole dove c’era affiatamento.
Quindi dopo l’esperienza all’Enaoli…
Che dura quanto? Quanto ci stai?
Tre anni, dopo il diploma dell’istituito professionale inizio a pensare a cosa fare. In Sardegna non c’erano possibilità, non avevo fatto domanda per entrare a Porto Torres o nella zona di Cagliari. In quella fase lì, nel ‘69, non stavano assumendo e quindi mi dedicai a ricercare oltre l’orizzonte sardo, anche italiano, che cosa potevo fare. Feci la domanda alla Fiat però nel frattempo venne fuori una occasione di lavoro a Ginevra, perché stavano costruendo il Cern.
C’erano diversi di paese che lavoravano lì e un mio cugino chiese a uno che aveva i mezzi meccanici e faceva movimento terra, e mi assunse subito. Andai lì a lavorare, nel mese di agosto-settembre (le scuole le avevo finite a giugno), partii a Ginevra per lavorare in questa società; mi occupavo delle macchine di movimento terra, caterpillar, mezzi pesanti e roba del genere… io avevo un’esperienza teorica. L’esperienza pratica ce l’avevo a scuola in officina, ma sul campo no. Quindi feci quest’esperienza molto interessante, mi ricordo le gelate d’inverno; si usciva sotto la neve, perché i mezzi non rientravano tutti nella zona fisica dell’officina o del cantiere. Restavano lì sul campo e la mattina si andava a metterli in moto, a volte non partivano, e passavo le giornate così. Dopo quell’esperienza, che durò un anno e mezzo circa, tentai la carta Torino, in officina, e a Torino la cosa non andò bene. Io volevo fare meccanica, non andare lì all’officina a spazzare. C’ero un mese e non avevo ancora toccato un bullone di motore, neanche visto. C’era l’officina da pulire, ho detto “«A me non interessa» e me ne sono andato.
Venne fuori un’occasione di lavoro a Milano, in una fonderia dove praticamente la meccanica consisteva nel ripristinare le macchine che servivano per tirare le forme per le colate. Erano macchine ad aria compressa però il sistema era sempre meccanico. E quando non c’era meccanica da fare, mi facevano fare il gruista col carro ponte. Io ci avevo preso gusto, mi piaceva, ero entrato nelle simpatie del titolare della società, che era un ingegnere. Ha visto che operavo bene con la gru, addirittura mi faceva caricare la sua barca che portava dalla fonderia nei mari vicino a Genova. Quell’esperienza durò un anno e qualcosa.
Dopodiché venne fuori la possibilità di andare… stiamo parlando del 1971, io ero ventunenne…
Nel 1972 venne fuori un’altra occasione di lavoro, in Siria. Praticamente una società italiana stava costruendo un canale di irrigazione nel deserto, un’infrastruttura molto grossa: questi canali a forma di “V” avevano 7 metri di lato per parte e 2 di fondo. Con macchine, con un macchinario della Caterpillar. Io ero addetto insieme a una squadra di collaboratori al buon funzionamento di questa macchina. Si lavorava di notte perché di giorno le temperature erano molto alte e il cemento si sarebbe praticamente frantumato da solo. Di giorno il lavoro veniva innaffiato.
Lì imparai…Siccome l’unico interlocutore era il topografo che parlava in francese e io in francese un po’ mi arrangiavo già (un po’ per Ginevra e un po’ per la base elementare che ti davano a scuola), interloquivo con lui e con i miei collaboratori che parlavano l’arabo: dopo quattro mesi parlavo anche l’arabo, lo capivo e lo parlavo tranquillamente. Quell’esperienza durò sei mesi.
Dopodiché rientro dalla Siria e mi sposo, perché l’impegno era che andavo in Siria e poi mi dovevo sposare.
Con una ragazza che conoscevi da quanto?
Dal ‘69, era di Escalaplano, studiava a Nuoro, rientrava per le feste e ci eravamo incrociati in quelle circostanze. Nacque questo rapporto che dura ancora oggi, è mia moglie.
A Nuoro cosa studiava?
Magistrali.
Quindi io rientro a dicembre e a gennaio ci sposiamo, gennaio del ‘72. Siamo quasi a 50 anni di matrimonio. C’era lo zio che lavorava in questa zona, era ragioniere di un’impresa che lavorava a Ottana e disse: «Ma vuoi venire a Ottana a lavorare? Abbiamo mezzi, abbiamo tutto», e io ho detto: «Non so… possiamo provare», e allora entro a Ottana…
Aspetta, le relazioni tra Ginevra, Torino, Milano, con amici eccetera… che emozioni vivevi? Il distacco dalla Sardegna… a un certo punto non ti importava più niente probabilmente o no? La fidanzata ti teneva legato?
L’unico legame, i punti di attrazione erano quelli… per il resto no…
La famiglia non ti scoraggiava dall’andare via, ti lasciavano fare?
No no, assolutamente. Ero andato tranquillo si rientrava per le feste, a Natale, a Pasqua, per quattro o cinque giorni e poi partivi tranquillamente.
Quindi vai a Ottana… Raccontami i primi passi.
Arrivo a Ottana e prendiamo questa casa in affitto, ero solo.
Che selezione avevi fatto?
No, la prima impresa era quella dove lavorava questo zio. E lì… Sai, il nostro dialetto è diverso da questo, noi parliamo il campidanese e qui parlano il barbaricino, parlavano in sardo e pensavi: «Ma che cavolo… ma chi è questo o quell’altro?» Erano scene comiche, però mi ero trovato bene anche lì, mi ero inserito bene…
Ricordo che il primo anno, si stava costruendo il parco serbatoio, quindi c’erano saldatori in giro, il montaggio di queste lamiere enormi che saldavano dalla mattina alla sera, betoniere che andavano e venivano da una parte all’altra. E lì inizio a prendere contatto… di gente ce n’era parecchia: pensa che nel 1973 a Ottana lavoravano 56 imprese metalmeccaniche, edili, elettriche, di informatica, c’era un po’ di tutto… c’erano imprese come la CIMI con 500 dipendenti, la SORIMI uguale, la Ferretti, la Gecomeccanica (saldatori)… 56 imprese per un totale di circa seimila lavoratori.
E così inizia questa esperienza. Dopo alcuni mesi, 5 o 6, iniziano gli scioperi perché i lavori si stavano concludendo e le imprese iniziavano a licenziare. I lavoratori finivano in strada; al che c’erano gli scioperi, i blocchi ai cancelli tutti i giorni.
Pensa che nel ‘73 (noi ci eravamo sposati a gennaio) mediamente si rientrava a casa con il 50% dello stipendio perché il resto finiva negli scioperi.
Come te lo ricordi il paesaggio? Era la prima volta che andavi…
Ottana era la prima volta che ci andavo, era una realtà incredibile… pensa che le fogne passavano nella cunetta. Avevamo una casa vicino al distributore Esso, dentro il paese, e lì c’era questa situazione incredibile… ci rimasi alcuni mesi e poi dopo trovammo una soluzione e ci trasferimmo a Orani.
A Ottana la situazione in quegli anni era di un movimento pazzesco, gente che arrivava da tutte le parti; andavi al bar ed era sempre strapieno, la mattina a fare colazione. Bar, ristoranti, pizzerie… c’era di tutto ed erano strapieni. Pensa che rientravano dalla Francia, Salvatore Zoncheddu con la moglie, appena rientrati misero su questo bar ed era una miniera.
Poi partecipavo agli scioperi, perché non ero nuovo a queste esperienze… a Iglesias negli anni ‘65-68/69 gli scioperi erano quasi all’ordine del giorno e venivano promossi dai minatori coinvolgendo tutti gli istituti di Iglesias. Si partecipava ed era una cosa molto positiva.
Comincia a nascere un po’ di coscienza ovviamente anche politica…
Esatto, io ricordo che c’era una sensibilità da parte della popolazione di Iglesias molto attiva. Quando si passavo lì con gli scioperi e i cortei, le serrande si abbassavano, non vedevi una serranda aperta. C’era questa solidarietà emergente da parte della popolazione, perché si sentiva proprio l’esigenza di manifestare e solidarizzare con i minatori. Perché la perdita dei posti di lavoro non era uno scherzo, nonostante il lavoro fosse quello che era, l’esperienza in miniera era drammatica
A Escalaplano la dimensione era naturalmente un’altra… nel paese di politica forse c’era qualcosa di più rispetto ad oggi, almeno il contrasto storico tra la Democrazia cristiana e la sinistra?
Escalaplano era un paese democristiano. L’unico che veniva additato era uno che si chiamava Peppino Piga, che era un comunista, l’unico. «Ecco quello è comunista», cioè veniva proprio additato perché era l’unico. Poi c’erano socialisti; uno che abitava di fronte a casa…
poi c’erano le famiglie classiche democristiane.
Perché socialmente com’era? Piccola proprietà contadina, quando uno aveva un po’ più di cose era un po’ più consistente anche… E intellettualità? Che tipo di classi dirigenti c’erano?
In quella fase non c’era nessuna attività o iniziativa…
Un po’ di notabilato locale, quello che amministrava?
Sì, sì.
Quindi la tua famiglia è pure democristiana come elettorato?
No, babbo non era comunista ma doveva essere socialista o socialdemocratico, questo è quello che son riuscito a ricostruire.
Tieni conto che io, dopo questa esperienza qui, dopo aver lavorato a Ottana, dopo che ho finito la mia esperienza a Ottana ho iniziato a documentarmi su chi era mio padre, e per risalire a chi era io non avevo… mia madre era già morta, i miei fratelli erano più piccoli di me e quindi ho aperto un’indagine per capire chi era mio padre, no? E ho iniziato l’indagine, a parte le chiacchierate fatte così in giro (ma non c’erano più persone anziane), sono andato all’Archivio di Stato per vedere un po’ che ruolo aveva avuto lui durante la guerra per esempio, e da lì sono risalito, ho scoperto che cos’era. Lui era del 1914. Praticamente nel 1939 era stato arruolato e inviato in Albania, a Scutari. Quindi l’8 settembre si trovava lì. Quelli che non aderivano alla Repubblica di Salò venivano fatti prigionieri e deportati in Germania, e lui finì in un treno e venne deportato in Germania, a 25 km da Berlino. Dopodiché venne liberato due anni e mezzo dopo dai russi ma non rientrò subito in Sardegna, rientrò nel ‘45, sei o sette mesi dopo facendo un giro pazzesco da… come si chiama? Da Napoli addirittura.
Io ho poi fatto un’indagine, ho voluto vedere questa cosa della Germania e sono andato tre volte. Allora a Velbert, stiamo parlando di 50 anni fa, praticamente c’era una zona che si chiamava Velbert; poi hanno cambiato nome e l’indirizzo che noi avevamo della sua abitazione non era più quello. Io sono andato lì e ho parlato con questa famiglia che anche loro, dice: «Noi abbiamo acquistato qui alcuni anni fa, ci siamo anche documentati però qui non c’erano case per i lavoratori». Al che riapro un altro filone: mio genero è tedesco, abita a Colonia, il marito di mia figlia, e ho detto: «Proviamo a sentire i giornali di quell’epoca, di quei giorni e vediamo se risaliamo a qualcosa» E…parla proprio con un postino che gli ha detto: «Quello aveva un altro nome, Velbert era questa zona qui»? Al che siamo andati lì un giorno e abbiamo scoperto dov’era: erano ex campi militari convertiti e utilizzati per i lavoratori immigrati che lavoravano lì. Adesso c’è un supermercato, l’ho anche fotografato, e però sono rimasti dei resti di queste case qui, e si vede proprio una cosa che risale al 1940-‘50.
E quindi questa era la storia di mio padre per risalire un po’.
Dal punto di vista politico non c’è niente, lui era stato consigliere comunale, però non c’era movimento, dibattito, non c’erano sezioni. L’unica sezione era la Dc che era in tutti i paesi.
Poi ho iniziato a documentarmi su Ottana, e su Ottana la storia è molto interessante, secondo me straordinaria, perché io ho avuto modo di girare altri stabilimenti, sempre del gruppo ENI, e quindi ho visto anche in Sardegna, ho visto l’esperienza nostra, di Ottana, e l’esperienza di quegli stabilimenti. Ottana come nasce? Nasce perché c’era una grande esigenza, ossia si partiva, voglio essere preciso su questo, perché le discussioni che avvengono oggi anche dopo 50 anni… le domande che la gente si pone sono: c’è un’alternativa all’industrializzazione? Perché dicono: «Se avessero investito i soldi nella pastorizia» eccetera… Allora, molti studiosi nel corso del secondo ‘900 hanno cercato una risposta a questo interrogativo, in particolare per comprendere la situazione attuale e soprattutto per comprendere le scelte di quegli anni lì. Vi era una reale possibilità di scelte diverse? Che poi si riduceva all’ipotesi di uno sviluppo in Sardegna senza un imponente apparato industriale concentrato su alcuni poli…
L’altra ipotesi era quella di uno sviluppo progressivo autoctono, endogeno e quindi non industriale ma fondato essenzialmente sul settore primario e sulle micro-imprese. Appare legittimo dubitare che alla fine degli anni ‘50 lo sviluppo non industriale fosse un’alternativa possibile o superiore al percorso intrapreso. Contestualmente il ragionamento nella realtà sociale e politica del tempo era: l’industrializzazione rappresentava la forma più rapida ed efficace per inserire la Sardegna all’interno del miracolo economico italiano, perché di questo parliamo. I governi senza particolari eccezioni investivano sulla trasformazione delle regioni del sud, non più a vocazione esclusivamente agricola. Con l’intervento della Cassa del Mezzogiorno si aprì la seconda fase di intervento straordinario nel Mezzogiorno, orientata decisamente verso il settore industriale. Questa era la situazione.
Quindi la sindrome industrialista invadeva il mondo degli studi, la scienza economica sosteneva la politica dell’industrializzazione. Nel ‘61 economisti, tecnici e studiosi senza eccezione sostenevano che lo sviluppo economico di una regione o nazione dipendevano soprattutto dallo sviluppo industriale.
Lo sviluppo capitalistico internazionale spingeva l’Italia meridionale, e quindi anche la Sardegna, in una precisa direzione: quella dell’abbandono dello sfruttamento dei campi, considerata la via ormai non più principale verso il progresso. Gli addetti all’agricoltura e all’allevamento nel ‘61 erano il 38% della popolazione attiva; chiedevano un altro modello di sviluppo, nuovo e diverso rispetto a quello dei padri, un modello di sviluppo che somigliasse a quello delle regioni più avanzate del mondo, orientato verso il superamento… come quello della Sardegna, sull’agricoltura, sull’allevamento, sulle miniere e sulle piccole botteghe artigiane. L’esodo dalle campagne era già iniziato quando maturò la scelta dell’industrializzazione: braccianti, coltivatori diretti, piccoli proprietari, mezzadri si rifugiavano nel nord Italia, in Germania, Svizzera, Francia e Belgio e trovavano lavoro prevalentemente nelle industrie. A spingerli era il desiderio e la ricerca di una migliore qualità della vita per se stessi e per le loro famiglie come osservò Emilio Lussu in un discorso al senato il 15 novembre del ‘61, dove dice praticamente: «Un ardente desiderio di uscire da un ambiente così schiacciante, così chiuso e senza panorama, che consenta uno sguardo nel lontano geografico e civile senza vita vera»
La classe politica si trovò di fronte al problema di assorbire la manodopera ex agricola, disposta ad emigrare piuttosto che ripiegare sui campi.
La gran maggioranza dei sardi domandava una rottura immediata col passato cosiddetto antico, la spinta verso l’industrializzazione e a realizzare anche in Sardegna il miracolo economico e sociale. Lo strappo col passato venne soprattutto con la scelta dell’industrializzazione, e industrializzazione fu. Erano gli anni della SIR di Rovelli, della Montecatini, della SNIA di Villacidro, della SARAS, dell’ENI… oltre 25.000 buste paga di dipendenti diretti venivano percepite nell’isola, e un indotto, un numero di dipendenti pressoché uguale se non superiore.
Ottana nasce in questo contesto, 2700 dipendenti provenienti da oltre 50 paesi. Nei primi 10 anni avviene una sorta di rivoluzione sociale, politica, culturale oltre che economica: la giovane classe operaia, sotto i 30 anni di media, di fatto fa pesare in modo decisivo tutta la forza della classe operaia organizzata grazie ai grandi dirigenti sindacali come Salvatore Nioi, leader indiscusso di grande carisma sostenuto da dirigenti nazionali della Cgil come Luciano Lama, Garavini e Trentin. Erano gli anni di Enrico Berlinguer e di Aldo Moro, del compromesso storico e della questione morale, ma anche di un passaggio storico per le zone interne, dove per le elezioni comunali oltre 170 lavoratori dell’industria di Ottana diventano amministratori comunali, e molti di questi anche sindaci. Erano gli anni delle rivendicazioni per i trasporti: i lavoratori di Ottana e gli studenti uniti, dopo giorni di blocco in tutti i paesi della Sardegna centrale, ottengono anche i pullman per i giornalieri e per i turnisti. Erano anche gli anni delle rivendicazioni per la casa e non a bocca di fabbrica, come volevano i vertici dell’ENI, ma nei paesi del nostro territorio, e così si è realizzato.
Spesso mi capita di ascoltare le testimonianze dei vecchi compagni e in tutti i ragionamenti vi è un denominatore comune, che posso sintetizzare così: il benessere economico che conobbe la nostra provincia, i nostri paesi, difficilmente si ripeterà. Negli anni ‘67-‘68, conosciuto anche come l’Autunno caldo, i responsabili della SIR venivano nelle scuole e negli istituti professionali dell’isola cercando candidati per i loro stabilimenti, sia a Cagliari che a Porto Torres. Nei nostri paesi prima che nascesse Ottana regnava la miseria e la rassegnazione, e l’unico spiraglio era l’emigrazione; i paesi si stavano spopolando, come avviene oggi, per via dell’assenza di prospettive. Difficilmente la storia si ripete, però ho fiducia che le giovani generazioni un giorno possano di nuovo lottare e battersi per un futuro di speranze e di progetti da realizzare.
Questo testo che leggi l’hai già usato, è uscito?
No…
Torniamo al percorso tuo ora, perché questa è un’acquisizione che tu hai fatto con una forte sensibilità politica, sindacale, culturale, la capacità di leggere gli avvenimenti, perché poi ti sei fortemente impegnato nella vicenda della fabbrica. Arriviamoci per tappe, dall’impresa esterna dello zio di tua moglie.
Praticamente quando cominciò questa battaglia delle imprese che iniziavano con i licenziamenti il sindacato ha iniziato a porsi il problema di come collocare queste persone. Tre anni prima, nel 1970, erano già partiti i corsi di formazione dove i futuri lavoratori di Ottana erano andati a fare i corsi di addestramento a Pisticci, Marghera, Ravenna… per prepararli a reggere la fabbrica, e quindi praticamente 700 lavoratori vennero assunti dalle imprese esterne a seguito di un accorto tra sindacato, consorzio della Sardegna centrale, Chimica del Tirso, e i lavoratori potevano fare domanda per essere assunti. Io feci la domanda ed entrai nel primo corso delle imprese esterne, durò un mese e dopo venni destinato a un impianto di produzione che era lo stiro filo poliestere, che era l’impianto, il reparto numericamente più grosso dello stabilimento, con 232 lavoratori. Il lavoro si svolgeva in turno, i turni a ciclo continuo dove due giorni lavoravi e uno di riposo, mattino pomeriggio e notte.
Dove ti presero per la tua formazione, o non c’entrava?
No, non per la mia professionalità, lì entravi come operatore chimico, poi ad adibirti a qualche mansione era… entravi come operatore chimico però. E per un anno circa feci l’operatore tessile in quest’impianto, poi… sai l’esperienza, la pratica eccetera mi portarono ad occuparmi anche delle piccole manutenzioni di questi macchinari qui. Quando capirono quali erano le mie capacità mi adibirono all’addestramento di una parte dei lavoratori per svolgere queste mansioni qui; erano squadre in turno di 24-25 persone, io mi occupavo di una squadra di 4-5 persone dove dovevano intervenire come si fermava la macchina per piccoli interventi di manutenzione.
Poi nel 1978 si aprì la possibilità di passare in manutenzione, quindi feci la domanda e iniziò un altro corso di formazione e passai ad operare nel settore manutentivo, della manutenzione meccanica. Venni adibito a un reparto che era lo stiro fiocco, e lì in una squadra di 13 persone, nel reparto a fianco a dove avevo fatto l’operatore tessile, ci occupavamo della manutenzione di questi impianti. Era un impianto dal punto di vista ambientale a mio avviso peggiore rispetto a dove ero prima, perché qui c’erano proprio i fumi, perché c’erano le lavorazioni ad alta temperatura, i macchinari intorno a 200 gradi, 220 anche, e poi c’erano gli essiccatori dove passava la fibra umida che ventilavano per asciugare la fibra e vedevi questa nuvola di fumo che non era solo vapore acqueo, c’era anche altro perché questi macchinari qui erano rivestiti in amianto, capito? Quindi…
Dopo alcuni anni vengo nominato caposquadra, responsabile della parte meccanica di questo gruppo di lavoratori, fino al ‘96-’98, e mi occupavo della manutenzione meccanica di quel reparto ma anche di quelli a monte, e del rapporto con l’officina centrale e così via. Dopo un periodo di lavoro mi ero permesso di dedicarmi anche all’attività sindacale, i lavoratori mi eleggono come loro rappresentante, entro nell’esecutivo del consiglio di fabbrica nel 1974, come Cgil da subito. Dopodiché questo mi dà una grande possibilità, quella di poter vedere la situazione non solo del mio reparto ma di tutti i reparti dello stabilimento, di poter girare, di poter vedere il sistema organizzativo aziendale…poi tieni conto che l’azienda si era affidata anche alla società di studi organizzativi…venivamo da una situazione di lavoro parcellizzato e si andava verso una struttura organizzativa composta dal gruppo omogeneo. Affidarono questo studio a una società che veniva da fuori, che dopo un anno di lavoro presentò questo progetto dicendo: «Qui possiamo arrivare alla creazione del gruppo omogeneo», ed eravamo nel 1981. Questo dava la possibilità al lavoratore di non fare sempre le solite cose ma di allargare il campo nell’ambito del proprio reparto a 360 gradi e di svolgere tutte le mansioni. Si arrivò al superamento del lavoro parcellizzato e questo creò le condizioni anche per un accrescimento professionale e culturale del lavoratore stesso. E quindi io mi occupai di questo nel 1981 per un anno, dedicandomi a tempo pieno, nell’esecutivo del consiglio di fabbrica, a formalizzare attraverso accordi sindacali quello che poi i lavoratori avrebbero dovuto svolgere.
Perché ti eri appassionato a quest’aspetto, tu?
Mi appassionava il sistema organizzativo, e il lavoratore… ritenevo io che fosse un arricchimento per il lavoratore stesso poter accrescere attraverso mansioni la sua professionalità. Ti ricordo che quell’esecutivo per il quale io mi ero battuto era solo Cgil, perché ci fu uno scontro con la Cisl e con la Uil, dove praticamente io dicevo che il ruolo del consiglio di fabbrica non poteva essere un ruolo asservito alle segreterie provinciali o a quelli che venivano… i precedenti che erano le commissioni interne, dove si stabiliva dall’alto cosa dovevano fare Tizio e Caio. No, il consiglio di fabbrica dev’essere una struttura autonoma, deve gestire il lavoro della fabbrica, le problematiche dei lavoratori. Cisl e Uil non erano d’accordo su questo, perché questi pretendevano, almeno… la loro esigenza era quella di avere la rappresentanza, e io dicevo: «Ma la rappresentanza ognuno di noi ce l’ha, noi rappresentiamo i lavoratori nell’insieme, io non rappresento i lavoratori della Cgil o del… io rappresento il lavoratore della fabbrica».
Quindi andammo in questa situazione di scontro a decidere la situazione dell’esecutivo dove i delegati si esprimevano, e ogni delegato esprimeva un voto per uno dell’esecutivo; in questa situazione non avevano la garanzia di avere: tre Cgil, tre Cisl e quattro Uil, erano i delegati che esprimevano la loro volontà. Siccome i numeri non erano soddisfacenti per loro, si dimisero. Si dimisero Cisl e Uil e da quel giorno avevamo un esecutivo Cgil. Decidemmo di andare avanti e andammo avanti: per un anno interno, ogni mattina, arrivando ai cancelli ci trovavamo un volantino di attacco da parte loro, a mezzogiorno dalla Cisl e di mattina presto dalla Uil. Quindi attacchi sferrati… però i lavoratori, io andavo alle assemblee, parlavano tutti, Cgil Cisl e Uil; non c’erano questi atteggiamenti da parte dei singoli, erano solo le sigle… quindi questo andò avanti.
Alla fine dei salmi riuscimmo a concludere tutta questa vertenza e tutti questi accordi e i lavoratori ne trassero un grande beneficio: erano tutti sistemati, sapevamo che in quel reparto ci andavano 29 persone e che l’inquadramento era questo, che la figura era quella dell’operatore unico di quell’impianto, non c’era più il quadrista eccetera, ma esisteva solo la figura del lavoratore che operava in questo reparto. Arrivando alla conclusione, praticamente l’ultimo accordo era sul salario: allora successe una cosa straordinaria, ossia che Cisl e Uil, per non restare tagliati fuori, sottoscrissero gli accordi che ci avevano contestato per un anno, e firmammo tutti e tre l’accordo assieme, nel 1981.
L’utilizzo degli impianti era irrisorio, a parte lo stiro filo che produceva al massimo da quando era partito, ma c’erano altri reparti come l’acrilico che viaggiavano al 25-30% della loro potenzialità. Però dopo questi accordi ci fu un rilancio dell’attività produttiva e in questo rilancio… tieni conto che la guerra chimica era sempre in atto tra Montedison, ENI eccetera. Montefibre aveva l’interessa a che producesse Marghera a pieno regime, e quindi c’era questa situazione di scontro continuo, e nonostante si dicesse che Ottana era un punto strategico negli accordi, poi dal punto di vista reale non era così. Allora dopo qualche anno ci fu un’azione anche da parte di ENI dove Montefibre praticamente uscì fuori dal contesto e l’ENI aveva iniziato a produrre a pieno regime. I conti venivano bilanciati… pensa a un reparto come lo stiro fiocco dove ero io, che marciava di norma a due linee, marciava con quattro linee! C’era una richiesta di mercato e i conti venivano risanati, però come diceva anche il sindaco di Ottana, Mario Lai, diceva che i dirigenti dell’ENI lo avevano informato: «Questa è una fabbrica che durerà 20 anni, non di più», però successe che si iniziarono a fare degli investimenti che portarono a un aumento della produzione. Abbiamo avuto una classe operaia e dei tecnici che hanno dimostrato una grande valenza, modificando anche gli assetti prestabiliti a suo tempo: tieni conto che la potenzialità delle linee fu aumentata, addirittura in certi casi raddoppiata.
Nell’84 iniziano poi i problemi. La chiusura del filo poliestere, il primo impianto dove ero andato a lavorare; iniziano i problemi della prima cassa integrazione con 350 lavoratori fuori dai cancelli. Il numero si riduce, passiamo da… tu pensa fino al 1984 circa 2000 dipendenti; siamo partiti con 2758 nel ‘74; nel 1983 eravamo 2098; nell’84 350 lavoratori fuori, in cassa integrazione, nell’85 la stessa cosa, fino al ‘91. Nel ‘91 avevamo già perso altri 500 lavoratori e siamo scesi a 1657. Nel ‘94 eravamo 1275. e due anni dopo, nel 1996, l’ENI inizia con il discorso del cambio di strategia e dismissione: viene ceduto nel ‘96 l’impianto poliestere, poi venne ceduta… allora nel ‘96 ci fu la vendita della polimerizzazione a Equipolymers Inc. International; sempre nel ‘96 viene ceduto l’acrilico e rientra Montefibre con la Landa; un anno dopo, a dicembre del ‘97 viene comunicata la chiusura del fiocco poliestere; a giugno del ‘98 praticamente i lavoratori messi fuori. Nel ‘98 viene formalizzato il discorso del contratto d’area. Ne ho saltato una… te l’ho detto che nell’84 c’è la nascita della Cooptex?
Nel 2001 viene venduta la centrale termoelettrica ad AS Energia, una società americana. Nel 2003 invece c’è la chiusura di Montefibre. Nel 2004 invece c’è la vendita di OttanaEnergia al gruppo Clivati; nel 2010 la vendita di polimerizzazione TA e TPA l’acido tereftalico a Ottana Energia Indorama. nel 2014 c’è la chiusura di Ottana Polimeri.
Poi comunque noi abbiamo sempre seguito dal punto di vista sindacale come consiglio di fabbrica e come esecutivo in quegli anni anche gli avvenimenti della zona industriale, della Metallurgica del Tirso. È uno scempio guarda, vedere quello che è successo è uno scempio… Metallurgica del Tirso chiusa nel ‘78 con 470 lavoratori fuori, la BetaTex di Bitti, 180 lavoratrici fuori, la Ferretti Costruzioni 500 lavoratori, Tirsotex uguale, Solis di Siniscola, Rosmery, Marfili di Siniscola, Calzificio Queen di Macomer con 400 occupati chiuso nel 2012, Cartiera di Arbatax ‘64-96, fallimento nel 97 con 800 occupati, le miniere di Orani Soim, Galisai ecc idem, anche Gadoni chiusa nell’87 e quella di Lula nel ‘97; la Legrer di Ottana, inaugurata nel ‘90 e chiusa nel ’94. Di buono noi avevamo avuto 20 miliardi a fondo perduto per la costruzione delle case dei lavoratori di Ottana, l’investimento più grosso fatto dalla Cassa del Mezzogiorno, pensa a Cassino 12 miliardi, noi 20, Pomigliano Alfa Sud 9 miliardi, Fiat a Termoli 8 miliardi, Crotone 8 miliardi. Una cosa pazzesca.
Ma il ciclo di vita delle industrie è spesso limitato nel tempo, no? Che cosa succede però nelle realtà industriali vere, che si va avanti, si riconverte, che…?
Allora, noi secondo me abbiamo avuto una grande dirigenza sindacale fino agli anni ‘80, poi il sindacato ha svolto un altro ruolo, non abbiamo avuto una classe politica forte che fosse in grado di progettare anche il futuro, no? Così come lo era stata la classe politica degli anni ‘60, i Soddu, i Ligios, anche Ariuccio Carta… ma la classe successiva praticamente non ha proposto nulla, ha gestito l’esistente.
Questo è l’assurdo, una classe politica e sindacale che non è in grado di studiare, di affidarsi anche ad esperti per capire quello che sta succedendo. E il risultato che noi oggi registriamo è frutto di questa incapacità a mio avviso. Se tu guardi, ancora oggi ci sono le stesse persone che stanno rappresentando queste organizzazioni, non ci sono parole…
do con il capo del personale dovevo fare proprio questo lavoro di archiviazione, di lettura dei giornali, trascrivere gli articoli importanti inerenti l’industria che poi venivano catalogati e conservati, giustamente. Poi di tutta questa storia per quanto riguarda i sindacati e queste cose di cui si è occupato Andrea lui ha proprio un archivio molto importante.