Dorino ha 65 anni quando racconta la sua storia in una delle prime interviste del progetto Ottana. Ci accoglie nella veranda di casa, a Ghilarza, dove vive con la famiglia, lui originario di Sorradile. E’ l’8 ottobre 2020, piena pandemia da Covid 19. Manteniamo il distanziamento, all’aria aperta, seduti attorno a un lungo tavolo in legno grezzo. Ci sovrasta la grande casa a due piani, cantina, soffitta, posto auto interno, sarà la stessa struttura che ritroveremo in molte altre visite. Le case degli operai di Ottana sono nelle zone di espansione dei paesi, cosiddette. Anche loro hanno in questo modo contribuito alle politiche edilizie, alcuni lo ricordano nei loro racconti.
Data: 08/10/2020
Intervista integrale: 140 min.
Però poi quando mi soffermo un attimino e faccio delle riflessioni mi torna alla mente anche Ottana. Perché a Ottana ci son stati tutta una serie di fatti negativi e che sono passati perché, o per ignoranza, un po’ perché ci hanno preso alla gola perché avevamo estremamente bisogno di questa fabbrica, per darci un minimo di ricchezza, di benessere, e farci uscire da quella condizione di arretratezza nella quale eravamo… Faccio una piccola parentesi: quand’ero ragazzino – io sono del ’55 – praticamente avevo tredici anni, quindici anni, a Sorradile, il mio paese, c’erano i manifesti dei taglionati, i banditi ricercati, Atienza, Mesina, ho un pessimo ricordo. Ho questo ricordo di arretratezza, anche di monocultura. Si andava al bar, si usciva, gli argomenti, i soggetti che alla fine monopolizzavano le discussioni, i confronti, erano quelli e solo quelli, era uno e basta, non sto lì a citare, ci capiamo insomma.
Però proprio questo vogliamo fare, ricostruiamo la tua vita.
Io mi chiamo Dorino Mascia, all’anagrafe sono Antonio Teodoro. Mio padre era contadino, mia madre casalinga, un fratello che poi è diventato muratore e una sorella che era dipendente delle poste, era portalettere. E niente, io ero un ragazzino dei piccoli paesi, senz’arte né parte insomma, ero lì, non avevo studiato, non avevo continuato, addirittura mi ero ritirato dalle medie, avevo preso la licenza media successivamente, in un secondo momento. Le medie erano a Ghilarza, ma come tutte le deviazioni di quell’età, volevo lavorare da subito, e infatti ero anche riuscito a trovarmi un lavoretto, ero appassionato di questa cosa qua, ero andato a lavorare in un’officina, qui vicino ad Abbasanta, però questo mi aveva distolto. Non c’è stato verso neanche a casa di convincermi, perché sì, non c’erano grandi possibilità, ma volevano fare tutti gli sforzi di questo mondo per farmi studiare. Gli altri due no, ero io quello destinato a studiare, il piccolo. Invece no, io ero preso… è un po’ quello che succede nei piccoli paesi, che il gruppo fa tendenza, ti trascina, e io trascinavo gli altri, non che questa mia scelta sia stata colpa degli altri, assolutamente, però si creano quei luoghi comuni che tutti condividono.
Il paese mi stava stretto? No, allora non mi stava stretto. Non mi rendevo conto di questo. Per per un verso sì, volevo uscire, però per un altro stavo bene perché ero molto legato agli amici. C’era questo legame fortissimo ma tanto tanto tanto tanto, era… Faccio fatica a descriverlo questo legame forte con gli amici. Coetanei, anno più anno meno, ma non solo. Nella mia classe eravamo quattro maschietti quindi pensa, non è che fossimo tantissimi. Non era un mondo di campagna, ecco perché a me mi ha colpito quello che dicevo prima, c’era una monocultura, per certi versi mi affascinava anche quel mondo, il mondo della campagna, però non era quello, perché avevo alcuni amici, qualcuno studiava ma uno solo e gli altri erano tutti impegnati in lavori di apprendimento, chi in officina chi in altre realtà, adesso faccio fatica anche a ricordare. Uno faceva un corso per tornitore, un altro era tubista, però voglio dire, ci muovevamo nella realtà artigianale fondamentalmente. Non eravamo fortemente, strettamente legati al mondo della campagna per quanto la vivevamo, perché Sorradile aveva un bar, anzi due, non è che ci fossero grandi spazi, grandi alternative, era quello insomma. La piazzetta del centro insomma, ci si vedeva lì, dalla piazzetta si andava al bar e si usciva qualche volta fuori ma fondamentalmente si ruotava lì, insomma questa era..
Sono rimasto in officina fino ai 17 anni, quando succede che uno di questi amici, forse l’amico al quale ero più legato e anche quello forse un tantino più lungimirante – era uno che si distingueva, ancora oggi glielo riconosco. Anche da poco abbiamo rievocato un po’ la nostra storia e gli riconosco sempre questa cosa, che era uno che vedeva un tantino più in là. E comunque era venuta fuori questa storia della fabbrica, di queste domande, di questa possibilità di lavoro a Ottana. Io quando ho fatto la domanda forse avevo sedici anni, non avevo compiuto neanche i diciassette anni, e questo mio amico mi fa: dài che facciamo la domanda. Gli ho detto: ma non so niente, andiamo a vedere almeno, cerchiamo di capire, io non ho idea di cosa dovremmo fare in questo posto se dovessero prendermi a lavorare lì.
Io l’unica cosa che ho pensato è: sì vado, infatti ero anche andato all’ufficio di collocamento di Ottana ma per trovare lavoro sempre nell’ambito di un’officina, che poi non se ne fece niente perché non avevo trovato niente, non mi avevano offerto nulla. Comunque alla fine siamo andati all’ufficio di collocamento con questo amico, abbiamo fatto la domanda e, poi ironia della sorte, a me mi hanno chiamato, che avevo diciassette anni, e lui poveraccio, che era quello che forse ci ambiva di più, non l’avevano preso. Allora io so anche per ammissione di molti, per averlo sentito dai colleghi, che tantissimi avevano un padrino, forse la maggior parte, io neanche questo, assolutamente. Ma a me m’avevano preso e a lui no. Poi avevamo capito che i meccanismi erano – non essendoci un padrino, perché se c’era un padrino queste difficoltà si superavano- che lui finendo il corso di formazione…cioè non avrebbe finito di fare il corso di formazione che sarebbe dovuto partire a fare il militare.
Io invece facevo in tempo a finire il corso di formazione e poi partire a fare il militare. E quindi a me mi hanno preso e a lui no. Questo era successo anche a mio fratello. Lui aveva fatto la domanda ed era la stessa cosa, non faceva in tempo a finire il corso che lo avrebbero chiamato militare, e non l’hanno chiamato. E quindi sono andato lì, mi hanno preso a fare il corso. Io viaggiavo in macchina con uno che lavorava in un’impresa esterna, non avevo macchina, non avevo patente. Non potevo muovermi neanche autonomamente, allora non c’erano i pullman.
Io avevo fatto la domanda nel ’72, nel ’73 m’hanno chiamato, è passato un po’ di tempo, non so, sette otto mesi, forse anche un annetto. Poi mi hanno chiamato, ho fatto il colloquio e da questo colloquio è scaturito che mi avrebbero preso a fare il corso. Mi avevano chiesto se ero disposto ad andare su in continente, questa era una delle condizioni. E niente, mi avevano chiamato alla fine dell’estate e a settembre del ’73 avevamo iniziato il corso, a Ottana.
Nella prima fase del corso non avevamo colto granché, perché eravamo un po’ isolati, non avevamo contatti con il resto della fabbrica e con quelli che avevano esperienza. Qualche impianto cominciava a muoversi, e noi eravamo un po’ isolati, dall’ingresso andavamo al centro di addestramento, contatti quasi zero. Circa duecento mi pare che eravamo, in cinque aule, cinque o sei aule. Le materie erano un po’ di fisica, un po’ di chimica. Il primo momento ero un po’ disorientato, dopo sono entrato subito… mi sono immedesimato, riuscivo a capire, erano anche bravi, questi istruttori erano periti industriali, erano fondamentalmente giovani, anche loro erano giovanissimi quindi c’era un rapporto anche abbastanza facile.
Cosa ti ricordi in particolare di quel periodo, qualche stupore, cosa?
La cosa che mi colpiva era la presenza di alcune persone – non so, una banalità – adulte, gente che allora aveva quaranta, quarantacinque anni. Io allora non avevo compiuto neanche diciott’anni, li avrei fatti dopo due mesi mi pare e quindi non riuscivo a raccapezzarmi. Insomma una persona di quarantacinque anni per un ragazzino di diciassette anni è una persona adulta. C’era gente di campagna ma anche nel campo del commercio per esempio. Ne ricordo uno in particolare, sai, gli stava molto stretta questa condizione, di stare in aula, di dover ri-iniziare un percorso, lui certamente aveva già un’attività. Avevano. Perché era più di uno ma uno in particolare, che poi era andato anche via, non aveva completato. Questa era la cosa che più mi colpiva della prima fase. Niente di particolare, eravamo un po’ isolati, un po’ fuori dal mondo.
Ripeto, io cercavo di più di stabilire rapporti di amicizia con i colleghi, gli altri ragazzi colleghi del corso. Per il resto eravamo un po’ ignari – ma non solo io – di tutto quello che ci circondava, tutto quello che stava nascendo e sorgendo, eravamo proprio impreparati, non avevamo storia. Eravamo tutti maschi, le donne c’erano in fabbrica, sì, ma poche, pochissime, sono entrate le donne che hanno fatto le professionali, che erano finite tutte in laboratorio, fatta eccezione per un po’ di donne dell’amministrazione.
E arriva il momento del corso in continente. Io con un altro gruppo siamo andati a Porto Marghera. Sì, era la prima volta che uscivo dalla Sardegna, sì è stata anche l’occasione per fare il salto. E lì è stata un’altra bella esperienza. Anche un po’… No, traumatica no, perché mi ero circondato… Quello che ho detto prima, una delle mie preoccupazioni era quella di avere amici, di instaurare rapporti forti di amicizia. Non lo so, avevo bisogno, perché arrivavo da una realtà dove questi rapporti di amicizia con i miei compagnetti erano molto molto forti. Quindi anche lì cercavo questa condizione, di circondarmi di persone con le quali potevo confrontarmi, avere fiducia. Io avevo legato molto con i busachesi, c’è un certo feeling, poi ho scoperto di averlo anche con i sedilesi.
Eravamo insieme anche a Porto Marghera. Il viaggio con la nave, poi il treno, un viaggio che non finiva più, da Roma a Porto Marghera è stato davvero un viaggio lunghissimo. E lì la prima difficoltà è stata trovare la casa, che comunque tutto sommato non avevamo tardato, eravamo riusciti nel giro di qualche giorno a trovare una prima sistemazione che è durata qualche mese, poco più, forse due mesi e poi abbiamo trovato un’altra casa dove stavamo meglio, più comoda, più spaziosa, in condizioni più agevoli. Era una conquista di responsabilità che a quell’età non è tantissima, che poi il gruppo ha due facce di una medaglia, per un verso ti rassicura per certi altri tende anche a fare branco, siamo stati sempre in condizioni di correttezza, però un po’ la tendenza c’è, il branco gioca brutti scherzi, se non fai attenzione. E niente, abbiamo vissuto un po’ questa condizione lì a Porto Marghera, non è stato molto esaltante, io faccio autocritica da questo punto di vista, non sono riuscito a sdoganarmi allora, non son riuscito ad inserirmi, forse non ho neanche tentato perché il pallino era rientrare quanto prima qua, non l’ho vissuta come un’opportunità. Inizialmente sì, però poi una volta lì non lo so, forse perché, sai, uscivi tardi la sera, siamo capitati nel periodo invernale, poca luce, la pioggia, le brutte giornate, lì ce ne sono più che qua di brutte giornate e questo non ci ha aiutato, cioè non mi ha aiutato. Ma anche gli altri, potrei usare il plurale tranquillamente. E quindi su questa cosa ho un po’ il rimorso perché era una realtà che forse potevo godermela di più ma forse ero troppo ragazzino e poi ripeto, questa condizione climatica non mi ha aiutato, non ci ha aiutati. Mi disturbava questa cosa della pioggia continua, non poter uscire tranquillo, ritrovarmi lontano, magari impreparato, non ci ero proprio abituato, e gli altri lo stesso.
Il lavoro invece, io son finito – già da Ottana mi avevano indirizzato – praticamente nel laboratorio, il laboratorio chimico. Mi piaceva tantissimo, questa cosa mi affascinava molto. Sì, sì, il laboratorio proprio mi piaceva, lo facevo con molta passione, era un qualcosa che mi affascinava, perché andavi a scoprire – come dire – questa cosa di riuscire a calcolare la quantità di una sostanza in una soluzione, poi a quel punto tutti i calcoletti, la questione del viraggio. Usavi l’indicatore, e quando arrivava al viraggio lì stabilivi quanta soluzione avevi consumato e da lì calcolavi di quella sostanza che stavi cercando quanta ce n’era. E questo ti portava con la testa all’impianto, a capire come funzionava anche l’impianto con tutte le sostanze.
Analizzavamo le quantità di metilammina in certe soluzioni che erano nel processo dell’acrilico – io ero nell’acrilico – i residui di certe sostanze alla fine della lavorazione, quanto residuo c’era in una determinata soluzione, oppure la densità del prodotto che andava in macchina per poi uscire fibra – praticamente lo chiamavano DOP, è una sostanza melmosa che finiva poi nelle filiere dove uscivano dei fili sottilissimi che si faceva fatica a vedere. Questa cosa mi affascinava, il fatto che non la conoscessi. Stavo scoprendo un mondo tutto nuovo, questo mi piaceva molto, mi coinvolgeva. La cosa che più mi piaceva a scuola era la matematica, certo, mi riusciva. Un po’ di storia, di geografia ma ti dovevi sedere a studiare, la matematica no, la prendevi… poi anche gli esercizi li facevi con buona volontà. Mi piaceva, le altre cose insomma, stare seduto era un po’… le difficoltà dei bambini di quell’età, insomma.
Questa era Porto Marghera. Gli ingressi degli operai in massa erano alle 8 e alle 17, quelli erano gli ingressi di massa dove si vivevano le altre emozioni politiche e sindacali. Anche lì queste esperienze le abbiamo vissute marginalmente perché noi siamo andati subito in turno e questo ci ha un po’ tagliati fuori, e non avendo un bagaglio precedente che ti aiutasse ad agganciarti, a collegare, a capire, intuire, cogliere tutti quei meccanismi che potevano portarti ad avvicinarti… non c’erano, quindi facevi difficoltà. E poi io, non so, forse era che io ero un… un bambinone, perché mi colpivano tutte quelle figure – ne ho incontrate tante – che mi rassicuravano, figure di adulti, continentali ma anche qualche sardo che lì era responsabile, e io coglievo sempre queste bonarietà, queste disponibilità alla comprensione della nostra condizione, della nostra situazione. Mi colpivano, mi coinvolgevano molto, e quindi queste persone, queste figure diventavano un riferimento, e poi non ho mai avuto – come dire? – un contatto, la necessità di andare a chiedere una qualunque cosa, nulla. Però, ripeto, avevo questa sensibilità per queste figure che io, ripeto, ne ho trovata più di una, sia al lavoro fra le persone che lavoravano nel laboratorio, ma anche dei responsabili sardi.
Mio babbo aveva 64 anni, io non ho seguito mio babbo in campagna. Certo mi ha lasciato tanto, perché quello che vivi comunque non lo perdi, è lì accantonato ma c’è, poi magari hai bisogno di ripristinare tante cose, insomma di rimettere in moto, di perfezionare, di riattivare. Mi portava comunque, se aveva bisogno di una piccola mano d’aiuto, perché allora era tutto manuale quindi una piccola mano anche se eri un ragazzino la davi nelle piccole cose. Quindi il fatto che io oggi sia affascinato dalla campagna – perché per certi versi mi affascina, è un’arma a doppio taglio questa campagna – è perché comunque l’ho coltivata anche dopo. Sì, mi sono abbonato a delle riviste, ho avuto e ho dei contatti con altre persone che hanno questa stessa passione, quindi scambi, ognuno scambia la propria esperienza e poi insomma alla fine diventi anche autodidatta, fai anche delle prove, osi.
Cocco: Mi colpisce che il fatto che non fossi nel flusso della massa all’ingresso e all’uscita lo racconti come se fosse un’occasione perduta. La piccola dimensione ti aiutava a trovare l’adulto di riferimento in una situazione più abbordabile, però ti mancava quella massa lì. Lo dici ora, o era anche allora un rammarico, lo pensavi?
No, allora non ero cosciente. Notavo questo movimento, queste figure, però non riuscivo ad agganciarmi, avevo delle difficoltà, comunque sai quell’anno io ero proprio tra i più piccoli, forse eravamo in due ad avere questa età perché gli altri almeno un anno in più avevano o due, però fa la differenza in certi frangenti, a quell’età fa la differenza, quindi mi mancavano certe esperienze, quindi facevo fatica. Sai, anche perché Sorradile era un paese profondamente democristiano e tutto era normalizzato, non c’era nulla di… Quelle rare figure alternative chiamiamole così, erano demonizzate e quindi io proprio non avevo delle esperienze che mi potessero dare uno slancio ad agganciarmi, osare, ero sempre timoroso, e mi sono reso conto dopo che ero condizionato dalla nostra realtà. C’era qualcosa che mi mancava, volevo capire, volevo addentrarmi, però c’erano delle difficoltà. Questa cosa poi è avvenuta quando siamo rientrati in fabbrica insomma. Lì ricordo i primi leader, Vitzizzai, qui in fabbrica.