Fabbrica e memoria, il senso del progetto

Il progetto storieoperaie.it nasce con l’obiettivo di raccogliere le memorie degli operai della fabbrica di Ottana, un archivio digitale che speriamo possa essere il primo passo di una raccolta non solo di racconti orali ma anche fotografico, di articoli poesie scritti e oggetti su quella specifica esperienza operaia, che è poi una incredibile e ricchissima esperienza umana e sociale proletaria.

Ogni qualvolta si porta avanti un lavoro di ricerca come questo che presentiamo oggi, perché di fatto si tratta di un lavoro di ricerca, c’è una parte importante in cui chi svolge la ricerca deve esplicitare in modo più chiaro possibile la sua posizione rispetto all’oggetto studiato: quindi chi sono, da dove osservo, qual è il mio grado di inserimento e di coinvolgimento all’interno del gruppo, quali sono i miei preconcetti sul gruppo stesso, in che modo e tramite quali canali entro in contatto con il gruppo o il contesto per studiarlo. Quindi vorrei partire da qui. Sono di Sedilo e me ne sono andata quando ho iniziato gli studi all’università, prima a Roma  e poi a Venezia, in Francia, passando per il Marocco, la Palestina e altri posti lontani da casa. La memoria è una tematica a cui tengo particolarmente, mi sono laureata con una tesi sulla memoria palestinese in Israele, e quindi tornare a casa e porre le stesse lenti di osservazione su un contesto così vicino è stato inaspettato. Sapere che anche qui si muove qualcosa, ci sono dinamiche interessanti da studiare. Quando vai via cerchi vitalità rispetto al paese, per me è stato così, e hai sempre quella tendenza un po’ spocchiosa che ti porta a dire: qui non c’è niente, la vita si svolge altrove. L’anno scorso è uscito un libro interessante che si chiama Decolonizzare il pensiero e la ricerca in Sardegna, a cura di Alessandro Mongili e Sebastiano Ghisu, mette assieme più saggi che ruotano attorno a questo concetto, guardare al posto di origine, la Sardegna, con sguardo diverso, uscendo dal mantra: qui non c’è niente. E’ una lettura interessante perché questa percezione, questo senso di inferiorità ce lo portiamo dietro, sembra che qui le cose siano interessanti solo quando arriva qualcuno da fuori a dirci che lo sono. E’ la fatica a vedersi con uno sguardo che non sia esterno. Questa riflessione la faccio prima di tutto per me.

Per scherzare con Umberto l’altro giorno ho detto che sono stata quella che ha metteva il navigatore su google maps quando andavamo a fare le interviste. E in parte è vero. La cosa interessante è che mi ritrovavo spesso a dire: ma lo sai che io qui non ci sono mai stata? Ed eravamo a Orani, a Silanus, a Orotelli. Mi sembrava incredibile che fossi stata negli Stati Uniti ma non nel paese a fianco al mio, che avessi amici a Buenos Aires e non a Busachi. Ecco, la forza di questo progetto per me è stata anche questa, intessere relazioni e vedere di nuovo, come mi capita spesso, che lo spazio, o meglio la percezione che abbiamo dello spazio, si modifica in base alle relazioni, alle persone che conosci all’interno di quello spazio, come se la distanza fosse data dal chi conosci in un determinato posto. E’ una bella sensazione. Cosa ne sapevo io, ventottenne della fabbrica di Ottana, lo potete immaginare. Nulla di più di quelli che sono i racconti sull’amianto, sulle falde acquifere inquinate, sulle delocalizzazione e la cassa integrazione… non molto di più perché ero abbastanza piccola quando ancora se ne parlava nei telegiornali e comunque sempre in tono catastrofista. Era l’ultima fase dell’industria di Ottana. Mio zio Pietro ci ha lavorato per una decina d’anni, lo ricorderete. L’ho sentito poco o niente raccontare di quegli anni se non quando abbiamo iniziato questo progetto: ho iniziato a fargli domande, a reperire volantini e articoli di giornale in casa sua, a pensare che le mie posizioni politiche fossero legate in qualche modo anche alla sua esperienza di fabbrica, lì è nato il suo posizionamento politico. Mi piace pensare a questa sorta di processo di osmosi neanche troppo indiretto.

Venendo al progetto, si tratta di una raccolta di memoria collettiva, di un insieme di memorie. Più di tutto abbiamo voluto prenderci cura dei ricordi chi ha lavorato in fabbrica a Ottana. Mi piace il concetto di prendersi cura perché quando si lavora con la memoria delle persone bisogna usare la delicatezza. Abbiamo provato a farlo, di far venir fuori piano piano i racconti, ci siamo preoccupati e ci stiamo preoccupando di non appiattirli nel metterli assieme e tenerli uniti.

Abbiamo notato la voglia che hanno le persone di vedere qualcuno è interessato alle loro storie, alle loro vite, al loro passato, una spinta che si mescola a volte alla preoccupazione sull’uso che gli altri faranno di queste storie. E’ un timore giustificato: non abbiamo niente di più importante della memoria del nostro vissuto e vogliamo sapere perché gli altri se ne interessano, che cosa vogliono farci. Questo timore poi viene controbilanciato dalla voglia di raccontare, come dicevo, di raccontarsi, di far sì che la propria esperienza non sparisca nell’oblio, che serva ancora a qualcuno.

C’è una bella poesia di Borges che dice

Siamo le nostre memorie

un museo chimerico di forme incostanti

specchi rotti in un mucchio

Ogni memoria ne contiene altre, nostre e altrui, in un rimando continuo. E’ per questo che prima di tutto direi che il nostro è un progetto di memorie concatenate, di rimandi, un progetto in cui si sono intessuti prima di tutto rapporti di fiducia, connessioni tra memorie. Credo che possa essere terapeutico un lavoro del genere, perché è tornare al momento raccontato, al passato, analizzandolo nel presente, a distanza di anni, con simpatia, a volte con dolore, ma sempre in modo creativo, riscrivendolo in qualche modo.  Si parte dal lavoro e si finisce a parlare di vita familiare, per esempio, ma anche dell’epilogo della fabbrica che felice non è stato. Di società ed economia dei nostri paesi, di emigrazione e immigrazione di ritorno, di dinamiche familiari e rapporti genitori figli, di rapporto e dell’identificazione tra individuo e lavoro, di istruzione, di vita di campagna, di questione di genere (come una donna vive la dimensione lavorativa, le differenze rispetto a un uomo, su questo aspetto tornerò più avanti). Ecco, il lavoro non è mai slegato dalla dimensione familiare e relazionale ed è quindi importante guardare all’intera sfera di vita individuale.

Tornare lì, a quei ricordi, è risultato a volte doloroso, altre volte molto piacevole, ma si è costruita questa fiducia per cui credo e spero che siamo riusciti a comunicare questo messaggio: terremo molta cura di queste memorie. Proseguendo su questa sorta di idea curativa, mi piacerebbe che da qui si partisse o meglio si continuasse per instaurare un discorso collettivo sulla fabbrica degli operai, per ricostituire la trama. Creare rete tra le memorie significa tornare a una coscienza collettiva che fa emergere l’esigenza di richiedere e di riprendersi lo spazio.  La consapevolezza ha questo potere. Ci porta a chiederci cosa ne facciamo delle nostre storie, come ce ne rimpossessiamo. Questo ci riguarda. La narrazione di sé ha senso se ci permette di andare avanti, di dare un senso al passato. Un senso che deve uscire dall’individuale e incontrare la collettività. Raccontare deve essere occasione di guarigione e non di fossilizzazione. Ed ecco allora a cosa ci serve tornare alla memoria collettiva, ricostruirla. Nella società della museificazione, in cui ogni cosa vuole essere messa sotto teca per uso mercificatorio – il pane, le maschere, i costumi, le tradizioni – ci sembra fondamentale prendere in mano il nostro passato in una chiave diversa, con l’intenzione non di vendere e mostrare ma piuttosto di creare memoria fertile, il che vuol dire ridiscutere dei legami tra passato e presente, sempre con l’obiettivo di complessificare le questioni, le realtà, di aprire un dibattito, di creare relazioni.

Mi piace dire che abbiamo raccolto memorie più che testimonianze, e continueremo su questo percorso. La memoria si differenzia dalla testimonianza perché la testimonianza limita l’investigazione a una ricerca d’informazioni puntuali e certe. Presuppone che ci sia una sola e unica verità storica, e quindi che ci sia anche una ricerca della verità storica. Ma ricercare la verità storica significa dimenticare che esiste una moltitudine di memorie, significa dimenticare i cosiddetti margini, quei luoghi e quindi quelle persone che li abitano e che stanno al di fuori dai centri di produzione ufficiali della storia.

La questione primaria a cui ci interessiamo non è se ci sia una verità ultima sul passato, in questo caso sul passato della fabbrica, ma piuttosto quale è il senso che nel presente le persone e quindi il gruppo da’ del suo passato. I pezzetti di storia che ognuno contiene in sé vanno riuniti e rimessi assieme. E’ da qui che siamo partiti, dall’esigenza di mettere in primo piano la voce di chi in fabbrica ha lavorato, ha vissuto, è cresciuto politicamente e dal punto di vista delle relazioni umane, di chi ha trovato un organismo in cui integrarsi. Siamo partiti dal voler salvaguardare una memoria che non trova spazio nella storia ufficiale dominante, che è quella del “è stato tutto un fallimento, è stato tutto inquinamento”.

In ultimo, la questione di genere. Chi è sensibile al tema, alle letture e alle teorie sulle differenze e disuguaglianze nelle esperienze di vita tra uomini e donne, può osservare in queste interviste le differenze tra la vita privata e lavorativa delle operaie e degli operai. La memoria femminile conserva le sue specificità, così ci dicono gli studi di genere e così emerge dal nostro lavoro.

Ci sarebbero molte riflessioni da fare sulla prospettiva di genere delle donne che parlano e raccontano la dimensione lavorativa. Tra tutte è interessante notare come la vita lavorativa di una donna viene scandita dai fatti quotidiani familiari e dagli eventi che interessano gli altri membri della famiglia: “Nel 1981 è nata Sara, nel 1984 Alberto, io sono andata in cassa integrazione nel 1985”. “Io ho lavorato finché non ho avuto la seconda figlia, una decina d’anni”. “Con l’idea della famiglia, bisognava fare una scelta, o il lavoro o la famiglia, e avevo deciso di stare a casa anche se il primo periodo ne ho risentito molto, mi mancava il contatto con le persone e il fatto anche di uscire di casa e di andare in un cotesto molto diverso dove si affrontavano problemi e dove vivevi quasi tutto il giorno con persone di altre culture”. Il lavoro in posizione di subalternità rispetto alla vita familiare, non viceversa. Questo dà il senso di una vita scandita dai ritmi familiari e dai ritmi della cura. Il che comprende anche la difficoltà a organizzare a coordinare lavoro e cura domestica da parte delle donne, cosicché capita che la cassa integrazione venga percepita come un momento di pausa, di riposo. Allo stesso tempo c’è il racconto su tutta una sfera di diritti a cui le impiegate accedevano per la prima volta grazie al lavoro di fabbrica, uno tra tutti il congedo di maternità. Si trattava di novità assolute all’interno delle società dei nostri paesi negli anni ‘70 e ‘80.

Altra cosa interessante è la narrazione del lavoro come liberazione dal controllo genitoriale, come emancipazione, possibilità di decidere per sé, indipendenza economica, ma anche formazione, specializzazione lavorativa che ha sostituito una formazione scolastica carente o assente. Senza tralasciare la novità della creazione di relazioni e amicizie tra uomini e donne laddove erano invece mal viste nel contesto del paese. “Per me era libertà, dire: oggi sabato devo andare a lavorare per fare straordinario e andarsene in giro con gli amici e tornare e non venirlo a sapere loro… Perché chi potevano chiamare? Non potevano chiamare nessuno, non mi controllavano la busta paga, non l’avrebbero saputa leggere fra l’altro. Veniva difficile anche a noi capirla tutta”. “L’autonomia, essere autonoma, io come donna, come persona, essere autonoma, capito? Ho preso subito la patente, volevo uscire da quella che era … mi sto spiegando? Insomma dalla donna del paese”.

In ultimo, c’è la sensazione che spesso ritorna nelle interviste femminili del non sentirsi abbastanza qualificate per il lavoro che si svolge, e allo stesso tempo la gratificazione lavorativa quasi inaspettata, descritta come immeritata. La sindrome dell’impostore la chiamano, il non sentirsi all’altezza. Pare che colpisca soprattutto le donne e le persone che provengono dalle classi sociali più sfavorite. Due categorie che devono più spesso dimostrare di essere all’altezza del ruolo ricoperto, soprattutto se quel ruolo dà accesso a una posizione sociale più elevata rispetto a quella di partenza. “Io arrivo lì, mi sento inadeguata, naturalmente, al primo impatto”. “Un po’ di timore l’ho avuto perché non sapevo se potevo essere in grado di fare…sapevo usare la macchina da scrivere, sapevo stenografare… Ero tranquilla diciamo, però l’impatto, hai un po’ di paura, persone di un certo livello un po’ ti mettevano soggezione”. “Tutti gran signori quindi rimanevi un po’ come la bambina o la ragazzina che…poi però pare che mi sono adattata”.

Come dimostrano gli esempi, sembra utile tener conto di questa ulteriore chiave di lettura nell’ascolto delle interviste. Abbiamo bisogno di saperci porre in ascolto delle voci femminili che ci circondano, abbiamo bisogno di imparare a riconoscerne la specificità.

 

Intervento di presentazione del progetto storieoperaie.it

 

 

Ottana, 9 dicembre 2022 – Biblioteca comunale