“Perché non venite a chiedercelo a noi”

Finita la parabola dell’industria a Ottana, restano ruderi, senza che nemmeno vengano considerati archeologia industriale. Ma restano – vivi, con la loro memoria – gli operai. Sono ancora alcune migliaia, uomini e donne, la generazione dei nati a cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso nella vasta area fra le province di Nuoro, Sassari e Cagliari (Oristano), protagonisti della prima massiccia immissione in fabbrica nella storia della Sardegna centrale. Di origine prevalentemente contadina (pastorale), sfuggirono al destino che li avrebbe assegnati allemigrazione o alla vita in campagna. Le hanno vissute invece nel mezzo dei processi produttivi della fabbrica moderna e nella società che hanno contribuito a cambiare radicalmente. Se hanno raccontato, nessuno ne ha raccolto le testimonianze, e se qualcuno ne ha raccolte, non le ha sistemate. E comunque non sono storie disponibili, non patrimonio collettivo. Memoria orale sì, ma a rischio estinzione, schiacciata nel privato dei ricordi dal peso sempre più marginale degli operai nella società, dallaffievolirsi dei legami di solidarietà e di classe, dal senso di fallimento che la dismissione della fabbrica ha prodotto, complici i giudizi interessati di un certo potere, una voglia di rivalsa di ceti conservatori e in parte speculativi che hanno visto messe in discussione per mezzo secolo le loro certezze e gli assetti tradizionali.

Sono conservati in archivi organizzati gli articoli di stampa, i volantini, i documenti ufficiali aziendali e sindacali, i testi delle contrattazioni, le relazioni alle conferenze di produzione. Anche in questo caso, opera meritoria degli operai che sono stati dirigenti sindacali (Saverio Ara, Palmerio Cillara, Francesco Tolu) e di un dirigente del personale (Andrea Mureddu), che li hanno messi a disposizione, sinora, per qualche – poche – tesi di laurea.

Ma poche, rare, e forse anzi nessuna delle storie operaie vissute direttamente sono fruibili in racconto, in testi scritti. Solo spezzoni, dichiarazioni, accomodate dentro contesti preparati da altri (sono i borghesi che hanno scritto sinora le storie della fabbrica, dice in un libro recente Alberto Prunetti).

Di prodotto da loro, gli operai di Ottana, una pagina facebook, con fotografie degli anni del lavoro e delle lotte in fabbrica, ma poche anche quelle, affluite lentamente, recuperate tra gli scatti di vite non di moda, alternate alle notizie su quelli che se ne vanno, molti per le conseguenze dellesposizione allamianto.

Un fenomeno analogo ha studiato Paesaggio Gramsci con una ricerca sui minatori della Sardegna centrale emigrati in Belgio dopo la seconda guerra mondiale: mandavano a casa fotografie fatte fare in città nel giorno del riposo, vestivano completi eleganti e mettevano la cravatta, poi raccontarono che avevano preso gli abiti in prestito per la messinscena).

Sono trascorsi cinquant’anni dall’istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul banditismo in Sardegna, presieduta dal senatore Medici, alle cui conclusioni (nel 1972) si suole far risalire la scelta dell’industrializzazione della Sardegna centrale. (La costituzione del Consorzio per il Nucleo di industrializzazione di queste aree – al confine fra le province di Nuoro, Sassari e Cagliari – è in realtà del 1970, e il Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno e del Ministero delle Partecipazioni Statali è in quello stesso anno già orientato anche sulla scelta dell’Eni e della petrolchimica).

Possibile che siamo ancora al dilemma se sia stata una scelta giusta o sbagliata? E giusta in funzione di cosa, e sbagliata in relazione a cosa?

E le persone reali, che si sono mosse in questa scena?

Cè che noi facciamo una fatica supplementare a parlare della modernità. È il mito identitario della Sardegna, che è arcaica oppure è tradita. Che è autentica, copia delloriginale, o non è. Agricola, rurale, mai urbana (quando lo sviluppo della pastorizia si innesca ai primi del 900 con i piccoli imprenditori caseari del Lazio, quelli del pecorino romano ancora imperante, che impiantano con i greci – i caseifici industriali e incoraggiano lallevamento ovino spingendolo fuori dalla preistoria).

Perché la letteratura, ma anche la pubblicistica, ha impiegato tanto a vedere e raccontare le miniere e i minatori, lemigrazione che a cominciare dallOttocento ha investito la Sardegna, ogni suo remoto angolo, spingendo folle nel vasto mondo (da dove hanno visto, osservato, guardato la Sardegna da lontano con nuovo sguardo)?

Prevalgono letture disparate di questo mezzo secolo di storia della Sardegna centrale, anche letture catastrofiste. La teoria del disastro antropologico, oltre che industriale, sociale, ambientale. Poca saggistica, per riequilibrare i giudizi con una analisi della complessità. Nessun romanzo ambientato in quel contesto pure enormemente interessante, pure enormemente conflittuale all’incrocio fra arcaismi e modernità, appunto. Una espulsione delle vite vere dalla letteratura anche minore che ci si accosta (poca). All’immaginario che ne risulta sembrano avere contribuito pochissimo gli operai, che nessuno forse ascolta più, sconfitti loro malgrado e inascoltati nonostante la ricchezza delle storie che hanno vissuto, dentro la fabbrica e osservando il fuori dalla fabbrica, le loro comunità, la Sardegna, il mondo, con uno sguardo mai esercitato prima.

In un libro recente, E poi arrivò lindustria. Memoria e narrazione di un adattamento industriale, Donzelli, 2021, lautore, Andrea Francesco Zedda, origini ottanesi, raccoglie alcune decine di biografie di operai per compiere con loro un percorso interessante tra il passato, la memoria, il senso delloggi. Una delle interpellate, unimpiegata, Lucia De Pretis, dice al giovane antropologo: «Perché non vengono a chiedercelo a noi se siamo contenti di quello che è stato?! Mai nessuno viene e ce lo chiede, ci chiedono solo quanti disoccupati e quanti morti ci sono. E poi apri il giornale e leggi sempre la solita storia, da 40 anni così» (pag. 86)

Ed è così che i protagonisti di una fase storica – ceto fortemente consapevole, intellettuale collettivo nella Sardegna centrale di fine Novecento – non si riconoscono nella narrazione che del loro mondo viene fatto – sino a prevalere, quasi pensiero unico – dagli altri, da altri.

storieoperaie.it è un canale che nasce con la pubblicazione di alcune decine di interviste fatte a ex operai delle fabbriche di Ottana fra il 2020 e il 2022 dal gruppo di lavoro di Paesaggio Gramsci, audio-registrate, trascritte con la riproduzione fedele del parlato.

«Le classi popolari hanno ricevuto laccesso non a tutta la scrittura, ma solo a una sua parte: hanno imparato a leggere, ma ci si è preoccupati meno di porle in grado di scrivere. La cultura si riceve, non si produce: perciò la cultura che si riceve è solitamente quella di qualcun altro», scrive uno dei fondatori della storia orale, Alessandro Portelli (in La città dellacciaio. Due secoli di storia operaia, Donzelli 2017).

Pur trattandosi in generale di giovani arrivati alla licenza media o al diploma di avviamento, quando vennero assunti agli inizi degli anni 70 (spesso conseguiti con i corsi serali dopo i turni di lavoro in fabbrica) gli operai della prima ora sono pur sempre figli di pastori e contadini, spesso loro stessi hanno trascorso linfanzia e ladolescenza in campagna, prima di sottrarsene alletà in media di diciassette diciottanni.

Conservano dei loro padri e delle comunità rurali alle quali appartengono profonde tracce di unoralità ricca, modalità espressive derivate dalle forme dialettali anche quando sono dette in italiano, cariche di rimandi che il parlato sa far risuonare.

Questo, nonostante limmissione nella socializzazione della fabbrica, la loro provenienza da paesi e aree diverse con diverse varianti del sardo, le pratiche sindacali delle assemblee, la necessità di interloquire con dirigenti continentali abbiano finito col far prevalere litaliano parlato nelle relazioni fra loro, soffocando forme delloralità. Anche le interviste, quando sono condotte in sardo dai ricercatori, virano verso litaliano dopo le prime domande e risposte, bastando anche solo una distanza di poche decine di chilometri tra il paese dorigine dellintervistato e quello dellintervistatore per indurre alluso di quella che appare la lingua più comoda, anche immaginando la divulgazione dei materiali.

È una duplicità di codici non solo linguistici che a volte sembra impoverire: è così per esempio per la scarsa produzione di poesia popolare, scritta e dimprovvisazione, che è stata conservata da chi è rimasto in campagna, anche della stessa generazione, forse lultima di una tradizione popolare di secoli.

Ma la proprietà di linguaggio, la conquista di competenze tecniche e linguistiche, il ragionamento politico, con le sopravvivenze della cultura orale tradizionale, producono racconti vividi e autobiografie puntuali, sguardi sull’altro, sulla realtà, il prima e il dopo il 1970, se stessi nel mondo, che sono oltre ogni altra considerazione sulla consapevolezza di sé, un patrimonio enorme della Sardegna.

Contribuiscono alla costruzione di una storia collettiva, pezzi che vengono offerti alla valutazione degli altri, primi gli storici, che possono disporre di tracce mai visitate tra le altre che hanno visto e che ispezionano nella loro ricerca.

Del resto, come scrive «Non esiste [] una storia e tantomeno la storia: vi è invece una molteplicità di costruzioni del passato in dipendenza dai noi che si costituiscono nel presente e che intendono occupare un proprio futuro» (Francesco Remotti, Prefazione, in Costruire il passato. Il dibattito sulle tradizioni in Africa e Oceania, a cura di A. Bellagamba e A. Paini, Paravia, Torino 1999).

Alcune decine di interviste sono state presentate venerdì 9 dicembre nella biblioteca di Ottana.

Sono il primo nucleo dell’archivio digitale che verrà organizzato secondo i criteri dell’Associazione italiana della Storia orale e con la consulenza di Sandro Ruiu, storico del movimento operaio che ha concluso lincontro del 9 dicembre. Raccolte con metodologia giornalistica più che storica e antropologica, risentono inevitabilmente oltre che della formazione degli intervistatori/intervistatrici, del loro orientamento, anche delle opinioni, persino pregiudizi, a volte resi manifesti nelle domande. Ascoltare tutti, per ore, aiuta a scansare i pericoli del prevalere di tesi pregiudiziali. Non cè selezione nella scelta degli operai intervistati e da intervistare, La durata delle conversazioni permette di spaziare su temi diversi e di esplorare terreni non sempre battuti, dunque di fare emergere paradigmi non sempre scontati.

Il lavoro è solo agli inizi, potenzialmente investe tutti gli operai, i tecnici e i dirigenti disponibili a raccontare. Ottana e quella particolare esperienza industriale è il contesto da cui si comincia, ma si farà presto ad allargarlo: nel raggio di poche decine di chilometri unesperienza industriale coeva è stata vissuta a Macomer, a Siniscola, Isili, Suni, tutti in provincia di Nuoro.


Intervento introduttivo all’assemblea di presentazione del progetto storieoperaie.it

Ottana, 9 dicembre 2022 – Biblioteca comunale